PHOTO
processo contro clan moccia
Nessuna persona dotata di buon senso e di un minimo di onestà intellettuale può ignorare la dimensione anomala dell’accanimento giudiziario che continua a colpire l’avvocato Giancarlo Pittelli. Il tema che deve discutersi non è “se” di accanimento si tratti, talmente solare ne è la evidenza, ma “perché” l’avvocato Pittelli ne sia destinatario. Sul “se”, basterà ricordare i lunghi mesi di detenzione cautelare al 41 bis nel carcere più duro ed irraggiungibile d’Italia, Bad’e Carros, voluti ed ottenuti dalla Procura di Catanzaro. Quindi, dopo mesi di arresti domiciliari, la nuova misura cautelare, per una diversa inchiesta questa volta della Procura di Reggio Calabria, pretesa da quella Procura e disposta dal GIP nuovamente in carcere, pur riguardando ipotesi di reato ovviamente precedenti a quelle per le quali era da molti mesi ormai ai domiciliari. Una assurdità talmente eclatante da averne determinato l’intervento correttivo da parte del Tribunale del Riesame (ma altro carcere, intanto). Ora siamo raggiunti dalla notizia di un nuovo aggravamento della misura cautelare, che ha precipitato l’avv. Pittelli per la terza volta nell’inferno del carcere preventivo (che, secondo Costituzione, deve essere la più estrema ed eccezionale delle soluzioni). Il motivo? Ha scritto una disperata lettera ad una Ministra della Repubblica, Mara Carfagna, supplicandola di occuparsi del suo caso, che lo vede privato della libertà prima ancora del giudizio da circa due anni, lui che - dettaglio generalmente avvertito come irrilevante - si protesta del tutto innocente. Diciamo subito che Pittelli era ristretto in un regime di arresti domiciliari con divieto di comunicazione con persone diverse dai conviventi. Perfino se volessimo considerare la lettera di denuncia ad un Ministro della Repubblica come violativa di quel divieto - e formalmente lo è - è bene si sappia che non ogni infrazione dei divieti cautelari giustifica l’aggravamento della misura. La vita giudiziaria è quotidianamente segnata da casi anche più gravi, che ciascun giudice è chiamato a valutare nella loro concreta idoneità a mettere in discussione il quadro di adeguatezza della misura cautelare in esecuzione. Nessun automatismo, dunque. Ora, quale grado di allarme cautelare può suscitare un appello di un detenuto ad un Ministro, perché si occupi del suo caso? È forse messa in pericolo l’acquisizione della prova dibattimentale? O magari è indicativo di una intenzione di reiterare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa? O tradisce forse un progetto di fuga? Insomma, perché l’imputato Pittelli deve tornare in carcere, pur dopo aver infranto quel divieto? Lo smarrimento di ogni proporzione tra l’azione e la reazione è talmente evidente da non meritare ulteriori illustrazioni. E dunque, perché? Ecco il punto. Giancarlo Pittelli non è un semplice imputato, ma - suo malgrado - innanzitutto un simbolo, un paradigma. Rappresenta, nel modo più estremo e drammatico, l’idea del difensore che si rende complice del proprio assistito, cioè una idea dominante in modo quasi ossessivo nella cultura poliziesca e nella vulgata giustizialista. Io non so se l’avv. Pittelli, tradendo in tal caso la sua funzione ed i suoi doveri professionali, si sia reso responsabile di una complicità con i propri assistiti, ciò che naturalmente è ben possibile che accada e che, sebbene in modo statisticamente eccezionale, accade e sempre accadrà nella comune esperienza forense. Non è mio, non è nostro il compito di giudicarlo, egli è affidato ad i suoi giudici. Ma è difficile pensare che questa durezza così sproporzionata e reiterata, questa tempesta perfetta che sembra voler annientare e distruggere un uomo prima ancora dell’accertamento delle sue ipotizzate responsabilità, sia indifferente al ruolo simbolico che, sventuratamente, egli si trova ad interpretare. E quando la giustizia penale abbandona il terreno suo naturale del giudizio sui fatti e sulle responsabilità, per lasciare spazio al valore simbolico ed esemplare dei suoi atti, essa apre la strada alle ingiustizie più feroci. L’avvocato penalista assolve ad un compito straordinariamente difficile, che è quello di tutelare la presunzione di non colpevolezza dei propri assistiti, e di veder garantito il principio fondamentale per il quale l’onere della prova è in capo all’Accusa. Tra questo suo compito, vitale in ogni società civile, e la collusione criminale con il proprio assistito, corre uno spazio enorme, fatto anche - come in una tavolozza di colori dal bianco al nero - di comportamenti superficiali, avventati, negligenti, imprudenti, arroganti, deontologicamente censurabili, prima che schiettamente illeciti. La incomprensibile durezza di questo obiettivo accanimento cautelare sembra in realtà voler negare, sul piano ben più ampio dei principi generali, quei margini, avvicinando brutalmente il bianco al nero, nella inconfessata e magari inconsapevole idea che il difensore rappresenti comunque un ostacolo sulla strada della Giustizia, piuttosto che un protagonista indispensabile della giurisdizione. Non so cosa abbia fatto davvero l’avvocato Pittelli, e quali siano le sue eventuali responsabilità. Ma faccio fatica a non cogliere, in ciò che gli sta accadendo, il sapore acre di un inaccettabile avvertimento per tutti noi, chiamati ad indossare la toga con rigore etico e professionale certamente, ma con piena ed intangibile libertà, chiunque sia il nostro assistito, per consentire al Giudice la massima riduzione possibile dei suoi margini di errore. E questo noi non possiamo accettarlo. Abbiamo anzi il dovere di non accettarlo.