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Quelle chat sono un falso clamoroso. Sono queste le conclusioni - come riporta il Corriere della Sera - della perizia informatica richiesta dalla procuratrice aggiunta di Milano Laura Pedio sul telefono di Vincenzo Armanna, ex manager Eni e grande accusatore della compagnia petrolifera nel processo Eni-Nigeria, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati. Si tratta delle chat che Armanna ha dichiarato di aver scambiato con l’ad di Eni, Claudio Descalzi, e il capo del personale, Claudio Granata, per dimostrare come gli stessi gli avrebbero chiesto di ritrattare o attenuare le accuse di corruzione nel caso Opl245 in cambio della riassunzione e guadagni importanti tramite la società nigeriana Fenog. E quelle dichiarazioni erano state confermate dall’ex avvocato esterno di Eni, Piero Amara, finito insieme agli altri tre nell’inchiesta sul “Falso complotto Eni”. La consulenza ha stabilito che i messaggi WhatsApp che Armanna ha dichiarato di aver scambiato nel 2013 con Descalzi e Granata non sono mai arrivati ai destinatari da lui indicati, anche perché i numeri ascritti ai due all’epoca non erano nemmeno attivi e, quindi, non esisteva alcun traffico telefonico. La perizia sul telefono - clamorosamente mai sequestrato prima di luglio 2021, nonostante quei messaggi fossero stati anche consegnati strumentalmente da Armanna al Fatto Quotidiano - conferma dunque quanto scoperto dal pm Paolo Storari, precedentemente titolare insieme a lei dell’inchiesta: il pm aveva infatti verificato che quei numeri erano “in pancia” a Vodafone, circostanza segnalata ai colleghi Fabio De Pasquale e Sergio Spataro, titolari dell’inchiesta sulla presunta corruzione, che però avevano minimizzato, sostenendo che in teoria potessero essere “invisibili” in quanto riconducibili ai servizi segreti. Tale elemento era stato segnalato da Storari insieme ad altri, sollevando dunque il dubbio che Armanna potesse essere un calunniatore, così come Amara. Tant’è che il pm avrebbe voluto iscrivere entrambi sul registro degli indagati per le dichiarazioni sulla presunta “Loggia Ungheria”, inchiesta che, a suo dire, sarebbe stata bloccata proprio per non danneggiare il processo Eni-Nigeria. Nonostante le sue deduzioni siano state ignorate, il Tribunale di Milano è comunque arrivato alla conclusione che Armanna fosse poco credibile: nella sentenza di assoluzione del troncone principale del processo, laddove veniva analizzata la vicenda del video favorevole agli imputati mai portato a conoscenza delle difese da parte dell’accusa, i giudici hanno infatti evidenziato come tale circostanza fosse di per sé «dirompente in termini di valutazione dell’attendibilità intrinseca perché rivela che Armanna, licenziato dall’Eni un anno prima, aveva cercato di ricattare i vertici della società petrolifera preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda” ad alcuni dirigenti apicali della compagnia». E i giudici avevano sottolineato «l’attitudine del soggetto a sfruttare per fini personali il sistema giudiziario e il conseguente eco mediatico derivante dalla pubblicazione di notizie riguardanti le indagini in corso». Secondo quanto raccontato da Storari davanti ai colleghi di Brescia che indagano sulla guerra intestina alla procura di Milano, il motivo del presunto ostracismo messo in atto dai vertici della procura sarebbe semplice: non far morire il processo Eni-Nigeria screditando uno dei principali accusatori. La procura di Brescia intanto, ha chiuso nelle scorse settimane le indagini su Storari e Piercamillo Davigo (che ha ricevuto dal primo i verbali di Amara come forma di «autotutela»), accusati di rivelazioni di atti d’ufficio, nonché su De Pasquale e Spadaro (nel frattempo passato alla procura europea) per rifiuto d’atti d’ufficio proprio in relazione, tra le altre cose, alle chat false e al video. In ballo rimane anche Pedio, sulla quale sono ancora in corso le indagini per omissione d’atti d’ufficio per non aver proceduto con le iscrizioni dei primi indagati in relazione alla vicenda Ungheria. La procura di Milano ha invece chiesto il rinvio a giudizio per Amara, Armanna e per altre persone - tra le quali l'ex direttore degli affari legali della compagnia petrolifera Massimo Mantovani - con l'accusa di calunnia nei confronti dell'allora avvocato dello stesso Armanna, Luca Santa Maria. Tra le accuse, a vario titolo, anche quelle di intralcio alla giustizia, induzione a rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria e false informazioni a pm. Santa Maria era stato accusato «di infedele patrocinio nei confronti di Armanna», con l'intenzione tra l'altro «di far cadere le accuse» che l'ex manager di Eni «aveva formulato nei confronti dei vertici» della compagnia petrolifera nel processo sulla vicenda nigeriana.