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Forse la verità su Giulio Regeni richiede, prima, che si dissolva un equivoco. E cioè che si distingua una volta per tutte l’azione penale dai rapporti fra Stati, fra Roma e il Cairo. È l’unica possibile chiave a cui ci si può affidare dopo la clamorosa decisione assunta ieri sera dai giudici. Con un provvedimento destinato a suscitare conseguenze anche politiche, infatti, dopo una lunga camera di consiglio, la Terza Corte d’assise di Roma ha annullato il processo ai quattro 007 egiziani accusati per la morte del ricercatore.
Più precisamente, è stato annullato il decreto che disponeva il giudizio, l’atto con cui gli uomini dei Servizi egiziani erano stati rinviati a processo. Una decisione innescata dall’istanza dei difensori d’ufficio: «Chiediamo la sospensione del procedimento e la nullità della precedente dichiarazione di assenza: bisogna avere la prova certa che gli imputati siano a conoscenza del procedimento, e qui a nostro avviso non vi è alcun atto formale che sia stato materialmente portato a conoscenza di questi» : con queste parole si erano rivolti alla Corte gli avvocati Paola Armellin, Filomena Pollastro, Tranquillino Sarno e Annalisa Ticconi. Inevitabile a quel punto, per i giudici, la valutazione sulla richiesta: si doveva stabilire se il processo sarebbe potuto proseguire anche in assenza di elezione di domicilio e nonostante le mancate notifiche agli imputati.
Hanno deciso che non era possibile: «Il decreto che disponeva il giudizio era stato notificato agli imputati, comunque non presenti all’udienza preliminare, mediante consegna di copia dell’atto ai difensori d’ufficio, sul presupposto», ha scritto la Corte d’assise, «che si fossero sottratti volontariamente alla conoscenza di atti del procedimento». Oltre al giudice dell’udienza preliminare, era stata di diverso avviso, ovviamente, anche la Procura di Roma, convinta che il giudizio potesse celebrarsi in contumacia. Ma invece per la Corte d’assise non si può, giacché non è possibile essere certi «dell’effettiva conoscenza del processo da parte degli imputati, né della loro volontaria sottrazione al procedimento».
La scena si consuma nell’aula bunker di Rebibbia. Davanti ai genitori del ricercatore ucciso, Paola e Claudio, e alla sorella Irene. Oltre alla famiglia, già parte civile nel procedimento, anche la presidenza del Consiglio dei ministri ha depositato istanza per la costituzione di parte civile. I quattro 007 egiziani sospettati di essere coinvolti nel brutale assassinio si chiamano Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, tutti agenti dell’intelligence del Cairo. Sono accusati di sequestro di persona, mentre Abdelal Sharif risponde anche di lesioni e concorso nell’omicidio del ricercatore friulano, ucciso il 3 febbraio 2016 nella capitale egiziana dove si trovava per compiere delle ricerche sui sindacati locali.
«Qui non abbiamo una prova regina, una intercettazione telefonica. Ma ci sono almeno 13 elementi che dal 2016 a oggi, se messi insieme, fanno emergere che gli agenti si sono volontariamente sottratti al processo», aveva detto aprendo l’udienza il procuratore aggiunto di Roma Sergio Colaiocco. Gli agenti della National Security egiziana, «hanno posto in essere sistematicamente azioni per bloccare le indagini, rallentarle ed evitare che il procedimento italiano andasse avanti», spiega in aula il titolare dell’accusa. A suo giudizio il regime del generale al Sisi ha scientemente intralciato le indagini e a dimostrarlo ci sarebbe il fatto che uno degli imputati, il colonnello Uhsam Helmi «era nel team degli investigatori egiziani che avrebbero dovuto indagare sulla morte del ricercatore». Sarebbe entrato in quel team «per condizionare le indagini. È lui ad aver gestito le perquisizioni a casa della vittima». Ma non è stato possibile ottenere documenti utili dal Cairo. Trentanove delle 64 richieste di rogatoria inviate dall’Italia in Egitto nell’ambito delle indagini, sono rimaste senza risposta.
Regeni venne rapito la sera del 25 gennaio 2016 e il suo corpo martoriato fu trovato nove giorni dopo, lungo la strada che collega Alessandria a Il Cairo. La procura di Roma è convinta che Giulio sia stato torturato e ucciso dopo esser stato segnalato come spia alla National Security dal sindacalista degli ambulanti, Mohammed Abdallah, con il quale era entrato in contatto.