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Tredici anni e due mesi. «Nemmeno un mafioso viene condannato a tanto», commenta Domenico Lucano all’uscita del Tribunale di Locri, che lo ha giudicato colpevole per tutti i reati contestati dalla procura. Tranne che per la concussione, il reato più infamante tra quelli contestati, e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, accuse dalle quali è stato assolto perché il fatto non sussiste, mentre si è estinta per prescrizione l’accusa di turbata libertà degli incanti. Accuse, le ultime due, che avevano fatto finire l’ex sindaco di Riace ai domiciliari il 2 ottobre 2018, ponendo una pietra tombale sulla storia del borgo dell’accoglienza famoso e studiato in tutto il mondo. Per il resto, il collegio presieduto da Fulvio Accurso non gli ha risparmiato nulla: il tribunale lo ha riconosciuto colpevole di associazione a delinquere - finalizzata a commettere «un numero indeterminato di delitti (contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica e il patrimonio)» -, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, abuso d’ufficio, falsità materiale, peculato e falsità ideologica. E lo ha fatto andando perfino oltre le richieste avanzate dal pm Michele Permunian, che per il “curdo” aveva invocato 7 anni e 11 mesi, definendolo il «dominus assoluto» dell’accoglienza, consapevole «di trasgredire le regole» per «interessi di natura politica». Si chiude così il processo al simbolo per eccellenza dell’accoglienza, quello alla quale tutti, da destra a sinistra, hanno fatto la guerra, a partire da Marco Minniti per finire a Matteo Salvini. Vincendola, da quel che si comprende da una sentenza che ha condannato 18 imputati su 27, giudicati colpevoli di aver accolto i migranti. Ciò nonostante il gip avesse fortemente criticato le accuse, parlando di «vaghezza e genericità» e sottolineando come qualsiasi riferimento a «collusioni ed altri mezzi fraudolenti che avrebbero condotto alla perpetrazione dell’illecito si risolve in formula vuota, ossia priva di un reale contenuto di tipicità». Marchiane inesattezze, così aveva detto il giudice, secondo cui «gran parte delle conclusioni cui giungono gli inquirenti appaiono o indimostrabili, perché allo stato poggianti su elementi inutilizzabili (...) o presuntive e congetturali o sfornite di precisi riscontri estrinseci». Per Lucano i giudici hanno stabilito anche il pagamento di quasi un milione di euro, una cifra enorme per un uomo praticamente indigente. «Non ho tutti questi soldi - ha dichiarato in piazza Fortugno dopo la lettura del dispositivo -. Mia moglie fa le pulizie in casa di altri. Non ho proprietà, non ho nulla. Non capisco. Ho visto un elenco di cifre enormi, a me mancano i soldi per vivere, come posso estinguere questa cosa? È inaudito». Una situazione di povertà più volte emersa nel corso del processo - nemmeno un euro è stato infatti trovato sui conti dell’ex sindaco che dopo l’arresto non ha più avuto un lavoro -, ed evidenziata dai suoi avvocati durante le arringhe conclusive: «Mimmo Lucano vive di stenti, la sua condizione è incompatibile con la commissione di qualsiasi reato», avevano affermato Giuliano Pisapia e Andrea Daqua, che lo hanno difeso gratis. Nulla da fare: per il tribunale la truffa è provata, quei soldi da qualche parte saranno. Poco importa che Lucano non abbia un centesimo in tasca. «Ho speso la mia vita rincorrendo degli ideali, contro le mafie. Ho fatto il sindaco dalla parte degli ultimi, dei rifugiati - ha commentato l’ex primo cittadino -. Mi sono immaginato di contribuire al riscatto della mia terra, per l’immagine negativa che ha sempre avuto. Un’esperienza fantastica, ma oggi devo prendere atto che davvero finisce tutto», ha spiegato, aggiungendo di aspettarsi un’assoluzione «con formula ampia». La condanna è arrivata a tre giorni dalle elezioni regionali, che lo vedono impegnato nelle liste a sostegno di Luigi de Magistris. Ma ora l’avventura politica per lui è finita: la legge Severino gli impedisce di poter essere eletto, anche se venisse votato in massa. Lucano, prima di lasciare Locri, non ha negato di considerare il suo sogno ormai finitio. «Oggi è l’epilogo per me. È un momento difficile - ha evidenziato -, ma la dignità non mi fa dimenticare la riconoscenza che devo avere per tutti quelli che si sono occupati della mia vicenda. Non voglio disturbare più nessuno, mi ritiro da tutto. Non mi importa più, voglio solo evitare dispiaceri ai miei familiari e ai miei amici, se devo morire, non c’è problema. Io sono morto dentro oggi. Non c’è pietà, non c’è giustizia». Per l’ex sindaco si è trattato di un ribaltamento della realtà: «Quando sono tornato dalle misure cautelari, perché mi avevano sospeso da sindaco e cacciato da Riace, i rifugiati mi aspettavano. Adesso Riace è finita». Per i magistrati di Locri, invece, ai migranti sarebbero andate solo le briciole, nonostante le manifestazioni d’affetto e le lacrime di chi a Riace, grazie a Lucano, aveva trovato una casa scappando da morte e devastazione. «Valutate voi con la vostra intelligenza se si tratta di un’ingiustizia», ha concluso. Per Pisapia e Daqua si tratta di «una sentenza lunare e una condanna esorbitante che contrastano totalmente con le evidenze processuali. Oltre tredici anni di carcere, per un uomo come Mimmo Lucano che vive in povertà e che non ha avuto alcun vantaggio patrimoniale e non patrimoniale dalla sua azione di sindaco di Riace e, come è emerso nel corso del processo si è sempre impegnato per la sua comunità e per l’accoglienza e l’integrazione di bambini, donne e uomini che sono arrivati nel nostro Paese per scappare dalle guerra, dalle torture e dalla fame - hanno spiegato -. È difficile comprendere come il Tribunale di Locri non abbia preso nella giusta considerazione quanto emerso nel corso del dibattimento, durato oltre due anni, che aveva evidenziato una realtà dei fatti ben diversa da quella prospettata dalla pubblica accusa. Per ora purtroppo possiamo solo sottolineare che non solo la condanna, ma anche l’entità della pena inflitta a Mimmo Lucano sono totalmente incomprensibili e ingiustificate e aspettare le motivazioni della sentenza per poter immediatamente ricorrere in appello nella convinzione che i successivi gradi di giudizio modificheranno una decisione che ci lascia attoniti». Soddisfatto, invece, il procuratore di Locri, Luigi D’Alessio: «Le sentenze si commentano da sole. In questo caso è stato riconosciuto il nostro impianto accusatorio, la sentenza quindi ci sembra equilibrata». Nonostante quei 5 anni e tre mesi in più.