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C'era una volta la guerra tra la Procura di Milano e Silvio Berlusconi. Fu un duello coi fiocchi, da libri di storia del futuro: drammatico, pieno di comprensibile tensione, ricco di colpi di scena. Si fronteggiavano il leader politico più potente del Paese e la Procura della Repubblica più agguerrita. Da una parte il politico seduttore che metà Paese adorava e l'altra metà aborriva. Dall'altra magistrati che dopo l'epopea di Mani pulite erano per moltissimi italiani i nuovi cavalieri della tavola rotonda. Il Paese stava in mezzo. Parteggiava. Tifava per l'uno o per gli altri. Pagava i prezzi della battaglia infinita senza neppure rendersene conto. Starà agli storici di domani chiarire in che modo quell'ordalia che ha occupato più di ogni altra cosa la vita politica del belpaese per un paio di decenni abbia inciso sulla parabola italiana, se e quali danni abbia prodotto. Sull'importanza che assegneranno a quella tenzone infinita, combattuta a volte con le armi della guerriglia e altre volte con quelle dello scontro in campo aperto, invece ci sono pochi dubbi. Il braccio di ferro tra Arcore e la procura ha segnato la vicenda della seconda Repubblica ancor più di quanto non abbia fatto, nell'età effimera del bipolarismo, il confronto tra il centrodestra dell'imputatisssimo e il centrosinistra del professor Prodi.Storia di ieri. Passioni spente a cui si guarda con nostalgia e un pizzico di malinconia. Silvio Berlusconi non è politicamente morto. Gioca ancora una sua parte ma nella scacchiera del Palazzo gli spetta tutt'al più il ruolo dell'alfiere non quello del coronato. Dicono che sogni ancora l'ascesa al Colle, ma lo bisbigliano con quella tenerezza venata di commiserazione con la quale si allude ai gagliardi di un tempo ormai traditi e rapinati di ogni lucidità dall'età spietata. Da temibile minaccia per una democrazia che si voleva, con molta esagerazione, minacciata dal “conflitto di interessi” è diventato l'apprezzato garante di una destra moderata e civile: “Quando c'era lui...”. Gli eroi in toga sono un ricordo appassito, quasi svanito. I samurai di Mani pulite si scannano, comunicano a colpi di denunce reciproche, mettono in scena lo spettacolo sanguinolento di un potere che si disgrega, si dilania, si azzanna. Il capitale di fiducia conquistato, a torto o a ragione, con l'inchiesta che seppellì trent'anni fa la prima Repubblica è stato dissipato sino agli ultimi spiccetti. Restano solo i debiti contratti nei giorni del trionfo. Il cavalier Silvio e i samurai togati non ci sono più. Resta solo il loro eterno conflitto, il duello combattuto da guerrieri esausti e invecchiati che faticano anche solo a reggere la spada senza stramazzare. La procura non rinuncia alle sue mosse sprezzanti, chiede con poco o nessun senso della misura una perizia psichiatrica per il gaudente che le amichette chiamavano un tempo papi. Il sovrano senza più regno replica con la consueta alterigia rifiutandosi di sottostare, costi quel che costi. Nell'agone si affrontano, da una parte e dall'altra, figure troppo simili agli zombie che spopolano nelle serie tv. Il Paese segue con vivo disinteresse.