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«Non ero nessuno, ero solo un tassista di Karachi.Vorrei essere ancora quel tassista. Vorrei conoscere mio figlio, che è nato poco prima che io fossi rapito. Invece, sono un 'prigioniero per sempre' quaggiù a Guantanamo. Sono qui da 17 anni. Non sono mai stato accusato di un crimine. Ma ancora: eccomi qui». La testimonianza raccapricciante, diffusa lo scorso anno dall'organizzazione umanitaria Reprieve - formata da avvocati e difensori dei diritti umani che offrono assistenza legale ai detenuti più indifesi - è di Ahmed Rabbani, uno dei 40 prigionieri ancora rinchiusi a Guantanamo. Senza mai aver avuto un processo e nemmeno un capo d'accusa, Rabbani ha passato quasi vent'anni in una cella. O meglio, in un buco nero. Nel buco nero della coscienza d'occidente, abituato a esportare democrazia ma non sempre a rispettarla. Perché se dopo vent'anni e quattro diversi Presidenti l'amministrazione statunitense ha trovato una buona ragione per ritirarsi dall'Afghanistan, non ha ancora trovato un buon motivo per chiudere per sempre la struttura della vergogna. Vent'anni di morte del diritto, di torture disumane e di costanti violazioni della Convenzione di Ginevra. Una follia pianificata, scientifica, figlia della strategia della crociata al terrore lanciata da Gerge W. Bush dopo l'11 settembre. Aperto formalmente nel 2002, lontano da occhi indiscreti, all'interno di una base navale Usa a Guantanamo, a Cuba, il campo diventa da subito il simbolo delle “vittime collaterali” della caccia a Bin Laden e ai suoi complici. Inizialmente le strutture sono tre: Camp Delta, Camp Iguana e 'Camp X-Ray' (chiuso tre mesi dopo l'apertura). All'interno ci può finire chiunque: terroristi, semplici sospettati e innocenti conclamati. Sono gli anni delle “extraordinary renditions”, pratiche illegali di cattura e deportazione, concepite dall'ingegno sbrigativo di Donald Rumsfield, segretario alla Difesa di Bush junior, a cui il mondo deve, secondo un rapporto del Senato americano, anche l'infamia del carcere di Abu Ghraib, in Iraq. Basta trovarsi nel posto giusto al momento sbagliato e si sparisce nel nulla di Guantanamo, con una tuta arancione identica ad altre 799, mani e piedi legati con delle catene e nessuna identità da poter rivendicare. Per le autorità nordamericane non sono prigionieri di guerra (che altrimenti dovrebbero essere sottoposti al diritto della Convenzione di Ginevra), né imputati comuni (che avrebbero diritto alle garanzie di un processo ordinario). Sono solo “detenuti” senza alcuna classificazione ulteriore, al massimo «combattenti nemici illegali», secondo la fantasiosa definizione di Rumsfield.Praticamente fantasmi. Per le torture c'è un protocollo messo a punto da due psicologi assoldati dalla Cia: James Mitchell e Bruce Jessen. Le chiamano 'tecniche di interrogatorio potenziate'. Prevedono waterboarding (il famigerato annegamento simulato), isolamento in celle poco più grandi di una bara, pestaggi e privazione del sonno. Come accaduto ad Ahmed Rabbani, il protagonista della testimonianza che abbiamo riportato, il tassista rapito in Pakistan e venduto alle autorità americane che però cercavano un altro uomo: Hassan Ghul. «Gli Stati Uniti in seguito hanno catturato il vero Ghul», prosegue nel racconto. Ma «sono stato ancora sottoposto alle 'tecniche' di Jessen e Mitchell per 540 giorni. Queste tecniche includevano la sospensione del mio corpo, appeso per i polsi e poi calato in un buco in modo che i miei piedi potessero a malapena toccare il terreno. Sono stato lasciato nell'oscurità totale per giorni, forse una settimana. Senza cibo. In punta di piedi nei miei escrementi. Più tardi ho appreso che questo era qualcosa che Jessen e Mitchell avevano raccolto dall'Inquisizione spagnola, lo 'strappado' lo chiamavano. Il dolore era lancinante».Le denunce formalmente presentate da altri Stati democratici e i report di organizzazioni internazionali com Amnesty International non servono a nulla. L'amministrazione americana, accecata dalla guerra al terrore, se ne infischia dei diritti umani. Un abominio a cui nemmeno Nemmeno Barack Obama è riuscito a porre fine, nonostante le promesse e le intenzioni più sincere. Mentre Kabul brucia, Guantanamo è ancora lì. «Io sono - e lo sono sempre stato - innocente. Chi è stato salvato torturandomi? Nessuno», conclude Ahmed Rabbani. Nessuno è stato salvato. E chi è uscito dall’incubo di Guantanamo è tornato subito al jihad, se già faceva parte di cellule combattenti, o si è radicalizzato tra le mura del carcere, se era totalmente innocente. Uno di loro, Abdul Qayyum Zakir, è appena diventato ministro della Difesa ad interim del governo Talebano. Guantanamo non ha sventato nulla, ha solo macchiato per sempre, e continua a farlo, la coscienza dell’Occidente.