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«È stato terribile, alcune bambini sono rimasti impigliati nel filo spinato, piangevano mentre le madri urlavano, un orrore», racconta visibilmente emozionato un ex ufficiale dell’ormai disciolto esercito afghano che sta aiutando i militari occidentali a far uscire le persone a rischio dall’Aghanistan.
I talebani hanno promesso che non impiegheranno il pugno di ferro, che non ci saranno rappresaglie verso i “collaborazionisti”, che le donne possono stare tranquille, esibiscono moderazione e chiedono a tutti di tornare alla vita normale; ma i migliaia in fuga non si fidano per nulla, sono convinti che appena i riflettori internazionali si spegneranno sull’Afghanistan tutto tornerà come prima, ossia a vent’anni fa al tirannico governo degli studenti coranici. Per questo le madri vogliono che i propri figli crescano lontani. Ma a sgretolare la speranza ci pensa il governo di Londra tramite il segretario alla Difesa britannico, Ben Wallace, il quale ha fatto sapere che «nessun bambino non accompagnato sarà portato fuori dall’Afghanistan» perché il governo «non può prendersi in carico un minore solo».
Nel Paese invece, dopo la calma apparente delle ultime ore e l’approccio “diplomatico” dei portavoce talebani Almeno due persone sono morte e altre otto sono rimaste ferite ad Asadabad, dopo che i talebani hanno aperto il fuoco sulla folla di manifestanti per la giornata dell’Indipendenza. Lo riferiscono testimoni oculari ad Al Jazeera. I talebani, secondo le ricostruzioni fatte da testimoni e video sui social media, hanno aperto il fuoco dopo che qualcuno ha pugnalato un loro miliziano con un coltello. Anche a Jalalabad, i talebani hanno aperto il fuoco contro le persone che sventolavano la bandiera nazionale, ferendo un uomo e un adolescente poi portati in ospedale. A Khost, gli studenti coranici hanno varato un coprifuoco per fermare le proteste contro la loro salita al potere, mentre la gente è scesa in strada anche a Kabul in difesa della bandiera nazionale, diventata ormai una sorta di simbolo di resistenza.
Nonostante la tensione stia crescendo di ora in ora, nella regione asiatica la Cina sembra che voglia accordare fiducia alla nuova classe dirigente dei talebani, a patto che rompano ogni legame con i gruppi terroristi jihadisti come al Qaeda, da sempre presente nel Paese. Pechino parla infatti di «segnali positivi» arrivati negli ultimi giorni dai Talebani, "nuovi padroni" dell’Afghanistan, ma al contempo ribadisce la sua linea rossa, «rompere con tutte le forze terroristiche: i leader dei Talebani hanno inviato segnali positivi al mondo affermando che affronteranno i problemi della popolazione e risponderanno ai suoi desideri», si legge in una nota del ministero degli Esteri di Pechino diffusa all’indomani di un colloquio telefonico tra il ministro Wang Yi e il capo della diplomazia turca, Mevlut Cavusoglu, su iniziativa di quest’ultimo. Il comunicato fa riferimento anche alle promesse riguardo «la sicurezza delle ambasciate», le relazioni con «tutti i Paesi», la sicurezza del territorio. Wang auspica che «questi impegni si traducano in politiche e azioni concrete».
Normale che la Cina diventi il “garante” di questa operazione che con ogni probabilità ha appoggiato anche prima del golpe bianco della scorsa settimana. D’altra parte gli Stati Uniti e tutti i paesi occidentali hanno totalmente abbandonato lo scenario afghano, e, come sottolineava ieri il presidente Joe Biden: «Non ci saranno interventi militari, neanche limitati e per proteggere le fasce più a rischio della popolazione afghana: «L’idea che ci si possa occupare dei diritti delle donne nel mondo con la forza militare non è razional. Ci sono molti posti dove le donne vengono sottomesse. Il modo per affrontarlo è fare pressioni economiche, diplomatiche e internazionali perché questo comportamento cambi». In ogni caso il vero banco di prova sarà il nuovo esecutivo che i talebani annunciano essere aperto anche alle minoranze politiche e ai loro storici oppositori. Le trattative proseguono convulse e fino a qual momento, sembra difficile che possano incrementare la repressione nei confronti della popolazione civile,