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Anche quest’anno, come ogni anno, il Partito Radicale si recherà il 15 agosto nelle carceri per verificare le condizioni di detenzione, nel nome di Marco Pannella. Visite che, a volte, rappresentano veri e propri viaggi nell’inferno, in luoghi dove gli uomini vengono spogliati non solo fisicamente, ma anche della loro dignità. Spesso ancor prima di sapere se ci si trova di fronte a degli innocenti o a dei colpevoli. Chiunque sia passato da un carcere ne parla a fatica, come un incubo da cancellare al più presto. Ma spesso quell’esperienza rimane attaccata addosso come una cicatrice, un marchio indelebile che è impossibile lavare via. Non importa se si è innocenti o colpevoli: il carcere è uguale per tutti e non fa distinzioni. E spesso annulla ogni diritto, ogni scampolo di rispetto, tradendo il fine rieducativo della pena. Le manganellate, i calci e i pugni sferrati a Santa Maria Capua Vetere, dove centinaia di detenuti sono stati massacrati, sono solo un esempio. Ma anche quando non c’è violenza fisica, il dolore è insopportabile. L’ultimo a raccontarlo al Dubbio è stato Marco Sorbara, ex consigliere regionale della Valle d’Aosta, rimasto in carcere 214 giorni e altri 695 ai domiciliari con l’accusa di concorso esterno. Un’esperienza «devastante», ha spiegato, che continua a rivivere anche ora che è stato assolto perché il fatto non sussiste. «Ho pregato tutti i giorni, dovevo aggrapparmi a qualcosa - ha raccontato -. Di fronte al carcere di Biella vedevo il Santuario di Oropa, dedicato alla Madonna Nera. Due giorni dopo l’assoluzione ho provato ad andarci in macchina. Beh, quando ho superato il carcere me la sono fatta addosso dalla paura, quella paura che mi era rimasta dentro. Non per aver commesso qualcosa, ma per quello che avevo vissuto». Il suo racconto è terribile, a partire dai 45 giorni passati in isolamento, in una cella grande «cinque passi per quattro». Senza vedere la famiglia per 33 giorni e convinto, dunque, che non volessero più avere a che fare con lui. Per lavarsi poteva contare solo sull’acqua fredda, senza radio per distrarsi e una tv non funzionante. Per dormire un letto in ferro con un materasso sottilissimo, tutto ciò che aveva per combattere il gelo insopportabile di quella cella. «Avevo talmente freddo che quando veniva mio fratello gli mettevo le mani sulla pancia per riscaldarmi», ha spiegato. Una sofferenza tale da pensare anche al suicidio: «Dopo due settimane ho preparato una treccia col lenzuolo, ho visto che reggeva e mi sono detto: durante la notte mi appendo. Perché non aveva più senso la mia vita». Per un innocente, ha sottolineato Sorbara, «anche un’ora in più in carcere è devastante. Ho sentito fisicamente quella violenza e ancora oggi sento il bisogno di farmi la doccia per togliermi quella sensazione di dosso». Come Sorbara, anche Domenico Forgione ha trascorso sette mesi in carcere prima che una semplice perizia fonica provasse che la persona intercettata non era lui. Forgione, storico calabrese, è stato scarcerato lo scorso 16 settembre, dopo essere finito in cella a febbraio con l’accusa di associazione a delinquere. Dopo l’arresto nel cuore della notte, alle 13.30 è stato portato nel carcere di Palmi: «La perquisizione personale, l’obbligo di dovermi spogliare completamente davanti a due sconosciuti che mi fanno accovacciare: non ho mai subito un’umiliazione più forte», ha sottolineato. A maggio Forgione è stato trasferito a Santa Maria Capua Vetere, un vero e proprio girone dell’inferno. «L’acqua delle docce era marrone - ha raccontato al Dubbio -. Ho avuto prurito alla pelle per due mesi dopo la scarcerazione. E nei tre mesi che sono stato lì ci sono stati un suicidio e due tentati suicidi. Tra i comuni, non nell’alta sicurezza, dove mi trovavo io. La spazzatura arrivava alle finestre delle celle e vivevamo in mezzo ad un puzzo terribile. Quando sei lì dentro – ha evidenziato – sei un delinquente e le guardie te lo fanno notare. Una mi disse: “si chiama Forgione, come padre Pio. Solo che lui faceva miracoli, lei fa danni”. Una cosa umiliante. Il carcere è un posto dove viene annullata la dignità: non ha idea di quante persone, per reggere la vita lì dentro, prendono tranquillanti». E se sette mesi sono troppi, figuriamoci quanto possano essere lunghi 20 anni. Angelo Massaro li ha trascorsi in cella anche lui da innocente, per un errore di traduzione dal dialetto pugliese all’italiano. Non aveva ammazzato nessuno, ma per capirlo ci hanno messo quasi un quarto di secolo. Dal 15 maggio 1996, data del suo arresto, è stato detenuto in sette carceri: Taranto, Lecce, Foggia, Rossano Calabro, Carinola, Melfi e infine Catanzaro, dove si è svolto anche il processo di revisione. In tre istituti l’acqua corrente nelle docce e nelle celle era solo fredda tutto l’anno, lo stato delle strutture «da terzo mondo». Ma la cosa peggiore è stata il distacco dalla famiglia. L’ordinamento penitenziario prevede che questo non avvenga, ma «per nove anni non l’ho mai vista. Non potevano venirmi a trovare per problemi economici e l’unico contatto era un colloquio telefonico alla settimana, per 10 minuti. Immagini 10 minuti ogni sette giorni: 180 minuti per ogni figlio, 120 minuti con mia madre e 120 con mia moglie. Questo, secondo il ministero della Giustizia, significa mantenere gli affetti familiari». La vita in carcere è stata durissima: «Più chiedevo il rispetto dei miei diritti anche carcerari, più ero considerato un detenuto problematico». In cella Rocco Femia, ex sindaco di Marina di Gioiosa, in provincia di Reggio Calabria, ci è rimasto invece cinque anni e 9 giorni. Da innocente anche lui, secondo l’appello bis celebrato a Reggio Calabria e chiusosi a marzo scorso con un’assoluzione perché il fatto non sussiste. La prima volta di Femia in cella è stata a Reggio Calabria, «un cunicolo con 4 letti a castello, con cemento grezzo a terra, scarafaggi e topi che ci passavano sulla testa mentre dormivamo. Dopo pochi giorni è venuto a farci visita il ministro della Giustizia di allora e gli ho detto tutto. Così sono stato trasferito a Palermo». Lì i detenuti subivano continui controlli notturni dalla polizia penitenziaria, che duravano circa un’ora, «senza nessun riguardo per il nostro corredo: salivano sui letti con gli stivali, buttavano tutto giù e ci toccava rimettere tutto a posto. La battitura era continua ed è un rumore che mi è rimasto in testa». Vibo Valentia, ha spiegato poi, «è un lager». Per Antonio Caridi, ex senatore del Pdl, il carcere è stato una parentesi lunga invece 18 mesi. Accusato di associazione mafiosa, l’ex politico è stato assolto pochi giorni fa perché il fatto non sussiste. Ma quell’esperienza lo ha segnato per sempre. «Il carcere rappresenta la civiltà di un Paese - ha raccontato al Dubbio -. E siamo un Paese incivile. Vivevo con cinque persone dentro cinque metri quadrati, con il bagno turco e senza docce. Ventidue ore al giorno chiuso in cella. Subito dopo essere uscito dal Senato ed essermi consegnato mi sono ritrovato in isolamento, in una cella due metri per due, senza prendere aria e con cibo inesistente. E questo per otto giorni. In 18 mesi ho sentito la mia famiglia due volte al mese e l’ho incontrata quattro ore al mese. Questo è il carcere, un posto dove non hai i servizi igienici e i riscaldamenti. E fuori è uguale: quando si manda in carcere una persona senza una prova per la stampa si è subito colpevoli. Vieni trattato come un criminale. La politica abbia il coraggio di riflettere su questo».