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Luca Palamara non è più un magistrato. Ufficialmente e, forse, definitivamente, in attesa della possibile pronuncia di Corti sovranazionali, alle quali l’ex zar delle nomine ha già annunciato di voler fare ricorso. L’ultimo capitolo della sua travagliata carriera è stato scritto stasera dalla Cassazione, che ha confermato la radiazione dell’ex presidente dell’Associazione nazionali magistrati. Una decisione che non lo ha colto di sorpresa, ma la battaglia, spiega al Dubbio, non è finita. «Ci aspettavamo questa decisione, nonostante tutto - ha sottolineato -. Non è questo il momento per ristabilire la verità, andremo avanti. Rispetto la decisione, ma la trovo ingiusta. Nei limiti del consentito, farò ricorso alla Corte di Giustizia europea sui profili delle intercettazioni. Pago il fatto che qualcuno ha ritenuto che non dovessi intromettermi nella scelta del procuratore di Roma, ma la mia lotta continua. Ormai me lo chiedono tutti e continuerò a farlo, per una giustizia giusta. In ogni caso attendiamo gli accertamenti delle procure competenti sui trojan. La battaglia per la legalità va avanti». Secondo i giudici della Cassazione, «Palamara ha agito sulla base di motivazioni assolutamente personali, intendendo colpire specificamente singoli magistrati, volta per volta presi di mira e al contempo e sinergicamente, ponendo in essere manovre strategiche tese a collocare - in alcuni uffici giudiziari sensibili - taluni magistrati in luogo di altri aspiranti». Una decisione, dunque, che conferma quanto stabilito dal Csm il 9 ottobre 2020, in un processo lampo durato poco meno di un mese. Secondo l’accusa, Palamara pianificò, assieme ai suoi “coimputati” davanti al Csm, attività per screditare alcuni magistrati e condizionare la nomina dei capi delle Procure. L’evento clou della vicenda è la cena del 9 maggio 2019 all’Hotel Champagne, alla presenza dell’ex ministro dello Sport Luca Lotti, all’epoca già imputato a Roma nell’ambito dell’indagine Consip. Quella sera si parlò del successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma, conversazione che, per Palamara, avrebbe rappresentato una normale interlocuzione fra esponenti di gruppi associativi e politici su alcune nomine. Per il sostituto procuratore generale Simone Perelli e per l’avvocato generale Gaeta, che hanno rappresentato l’accusa a Palazzo dei Marescialli, il comportamento dell’ex magistrato è stato invece di «una gravità inaudita». Ma il difensore di Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, ha contestato aspramente l’utilizzo del trojan, piazzato dai pm di Perugia per scoprire la presunta corruzione da 40mila euro poi eliminata dalle accuse, l’utilizzabilità delle intercettazioni e la riduzione della lista testi da 133 a sei. «Quando ero in disciplinare – spiegò allora Palamara – ho visto processi che saltavano per un certificato medico presentato più volte. Io sono stato processato in 10 giorni».Il provvedimento, lungo 187 pagine, respinge, punto per punto, le doglianze dell’ex pm romano. Al quale i giudici contestano un modus operandi che ha condotto alla «inevitabile ma necessaria conseguenza di sfavore di tutti i (numerosi altri) concorrenti rimanenti, diversi da quelli prescelti, programmaticamente selezionati non già sulla base di meriti oggettivi, ma unicamente in forza di convenienze strettamente personali, dell'incolpato e dei suoi interlocutori». La condotta dell’ex zar delle nomine, secondo la sentenza, è «tutt'altro che occasionale ma, al contrario, soggettivamente avvertita dall'incolpato come assolutamente normale, usuale, fondata sul radicato convincimento della riconducibilità sistematica delle proprie condotte anche al piano di una possibile e lecita (se non addirittura scontata) interlocuzione tra magistratura e politica». I giudici, nel bocciare il ricorso, partono dalla richiesta di ricusazione avanzata dall’ex pm nei confronti di diversi consiglieri del Csm, tra i quali Piercamillo Davigo e Fulvio Gigliotti, contro i quali, pochi giorni fa, ha presentato un esposto per mancata astensione dolosa e induzione in errore degli altri consiglieri. Palamara aveva chiesto l’astensione di Davigo in quanto lo stesso avrebbe «manifestato il suo parere sull'oggetto del procedimento fuori dell'esercizio delle funzioni giudiziarie», nel corso del pranzo con il pm Stefano Fava, durante il quale si sarebbe parlato dei contrasti con Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. Secondo il Palazzaccio, però, Davigo si sarebbe limitato a parlare di «divergenze di vedute», acquisendo informazioni soltanto su una parte della vicenda, ovvero l’esposto presentato da Fava nei confronti dei vertici della procura, considerato dal Csm una campagna di delegittimazione ai loro danni. Le dichiarazioni di Davigo, inoltre, «non si configurano in nessun caso come esternazione con le quali, in relazione a quanto conosciuto, vengono prefigurati possibili esiti (ma nemmeno sviluppi intermedi) del procedimento disciplinare» a carico di Palamara.