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«La questione morale nella e della magistratura, per l'impatto e le ricadute sull'opinione pubblica, più che questione democratica è ormai una vera emergenza democratica. Perché il crollo di fiducia che ha colpito l'ordine giudiziario e il suo organo di governo autonomo mina alle fondamenta la legittimazione democratica della stessa giurisdizione»: così il vicepresidente del Csm David Ermini intervenendo al congresso nazionale di Magistratura democratica in corso a Firenze. «Tutti sappiamo - ha proseguito Ermini - che lo tsunami che si è abbattuto in questi mesi è in realtà l'onda lunga di degenerazioni e miserie etiche risalenti negli anni, e sappiamo anche che la gran parte dei magistrati è del tutto estranea all'indegnità disvelata dai ben noti scandali e ne è profondamente turbata; ma altrettanto bene sappiamo che l'attuale crisi della magistratura, per intensità e qualità, è di portata questa volta diversa dal passato e segna il punto di non ritorno. Non esiste un piano B, non ci sono opzioni o vie di fuga, non è data un'altra chance». In merito al dibattito sulle riforme della giustizia a firma Marta Cartabia, Ermini confida nella convergenza dei partiti: «Ho piena fiducia nella sensibilità istituzionale della ministra Cartabia, nella sua competenza, nelle sue capacità di dialogo e sintesi. Confido che le forze politiche, tutte le forze politiche in Parlamento, abbiano la consapevolezza che la strada delle riforme è strada a questo punto obbligata, e non solo per l'accesso ai fondi del Recovery ma per gli equilibri delle stesse istituzioni, e responsabilmente convergano su soluzioni condivise e nel solo interesse generale di un sistema giudiziario efficace e giusto. Se non c'è un accordo tra le forze politiche per trovare una strada le riforme sulla giustizia diventano solo armi di battaglia, e il cittadino non ottiene poi il servizio giustizia». Sul problema del carrierismo, svelato dallo scandalo Palamara, Ermini aggiunge: «Sussiste da parte della magistratura associata, la necessità di una seria riflessione. Mai mi permetterei di entrare nel dibattito interno dei singoli gruppi associati», «ma mi rivolgo a ciascun magistrato perché si interroghi in coscienza innanzitutto sui danni del carrierismo fine a sé stesso, virus letale e motore di scambi immorali che hanno inquinato la vita consiliare». Ad intervenire al XXIII Congresso Nazionale di Md, dal titolo "Magistrati e Polis Questione democratica, questione morale" anche il Presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia che ha affrontato due temi in particolare: l'attuale riforma della giustizia targata Cartabia e il tema della "separazione" declinato su vari versanti. Per quanto concerne la riforma del processo penale, Santalucia ha ribadito alcuni dubbi espressi già su questo giornale: «Ci sono aspetti dei disegni di riforma che suscitano perplessità – mi riferisco, ma solo come uno dei possibili esempi, alla fisionomia, per quel che si sa, della prescrizione processuale –, su cui occorrerà discutere. Mi auguro che una innovazione così importante sarà valutata ed approfondita anzitutto in diretto e concreto riferimento alle condizioni organizzative degli uffici giudiziari, delle Corti di appello». Ci sono poi proposte mancate, per il consigliere di Cassazione: «Il meccanismo di archiviazione meritata, che avrebbe potuto concorrere, con l’irrobustimento della messa alla prova e dell’archiviazione per particolare tenuità del fatto, ad un serio sfoltimento del carico giudiziario pare non essere tra gli emendamenti approvati dal Consiglio dei Ministri. Mancano anche alcuni accorgimenti che avrebbero rafforzato i riti premiali e si è rinunciato ad una rivisitazione della struttura dell’appello». Per quanto concerne la questione della "separazione", Santalucia obietta soprattutto contro la proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere, promossa dall'Unione delle Camere Penali, e ora giacente in Commissione affari costituzionali della Camera: «Nel tentativo di assicurare al pubblico ministero autonomia e indipendenza, al pari dei giudici, si formerebbe il Csm della magistratura inquirente del tutto sovrapponibile, quanto a struttura, a quello della giudicante. Un domani potrebbero essere, nel loro Csm, la metà, se non, come detto, poco più, e quindi con un potere di gran lunga accresciuto. È questo il ridimensionamento della figura del pubblico ministero a cui si mira? É facile prevedere che questo smisurato ampliamento di poteri potrebbe non essere tollerato». Infine, sostiene Santalucia, «una seconda separazione dovrebbe intervenire nella relazione tra Csm e i magistrati, affidata al sistema del sorteggio incaricato di espellere il correntismo dai luoghi del cd. governo autonomo e che, recidendo il legame di tipo elettivo, indebolirebbe fortemente quella sia pur parziale rappresentatività dell’ordine giudiziario che al Csm è stata riconosciuta – v. Corte cost. n. 142 del 1973 –. Trovo molto convincenti le parole pronunciate ieri della prof.ssa Biondi, secondo cui, a meno di non mettere mano a riforme costituzionali, deve prendersi atto che il testo della Carta parla, senza possibilità di spazi interpretativi, di componenti eletti». Un intervento molto interessante è stato quello di Luigi Ferrajoli, professore emerito di filosofia del diritto, Università Roma Tre, tra i fondatori di Magistratura democratica, che ha tenuto una lectio magistralis dal titolo "La costruzione della democrazia e il ruolo dei giudici". Un passo molto rilevante è dedicato al rifiuto del protagonismo giudiziario «oggi favorito dai media televisivi. Dobbiamo riconoscere che ogni forma di protagonismo dei giudici nei rapporti con la stampa o peggio con la televisione segnala sempre, inevitabilmente, partigianeria e settarismo, incompatibili, ripeto, con l’imparzialità. Di qui il valore della riservatezza del magistrato riguardo ai processi di cui è titolare. Ciò che i magistrati devono aver cura di evitare, nell'odierna società dello spettacolo, è qualunque forma di esibizionismo che ne compromette, inevitabilmente, l’imparzialità. Si capisce la tentazione, per quanti sono titolari di un così terribile potere, di cedere alle lusinghe degli applausi e all’autocelebrazione come potere buono, depositario del vero e del giusto. Ma questa tentazione vanagloriosa va fermamente respinta. La figura del “giudice star” o “giudice estella”, come viene chiamato in Spagna, è la negazione del modello garantista della giurisdizione. Essa rischia di piegare il lavoro del giudice alla ricerca demagogica della notorietà e della popolarità. In breve: i giudici devono evitare qualunque rapporto con la stampa e più ancora con le televisioni». E poi il rifiuto dell'idea della giurisdizione come lotta a un nemico: «La prima regola consiste nel rifiuto di ogni atteggiamento partigiano o settario, non solo da parte dei giudici ma anche dei pubblici ministeri. La giurisdizione non conosce – non deve conoscere nemici, neppure se terroristi o mafiosi o corrotti – ma solo cittadini. Ne consegue l’esclusione di qualunque connotazione partigiana sia dell'accusa che del giudizio e perciò il rifiuto della concezione del processo penale come "lotta" al crimine. Il processo, come scrisse Cesare Beccaria, deve consistere nell’“indifferente ricerca del vero”». Per affrontare la questione morale, tema al centro del dibattito di Magistratura Democratica, Ferrajoli propone al termine soluzioni radicali. Ridurre drasticamente il potere dei capi degli uffici e il potere discrezionale dell'organismo che li nomina. «La carriera, in breve – e con la carriera tutte le norme e le prassi che alimentano il carrierismo, a cominciare dalle valutazioni di professionalità – contraddicono una regola basilare della deontologia dei magistrati: il principio che essi devono svolgere le loro funzioni sine spe et sine metu: senza speranza di vantaggi o promozioni e senza timore di svantaggi o pregiudizi per il merito dell'esercizio delle loro funzioni. Le valutazioni della professionalità, in particolare, oltre ad essere di solito poco credibili e talora arbitrarie e [volte] a sollecitare il carrierismo, finiscono sempre per condizionare la funzione giudiziaria, per deformare la mentalità dei giudici e per minarne l’indipendenza». Eliminare il virus del carrierismo, attraverso un ridimensionamento strutturale delle carriere dei magistrati significa anche sottrarre alla politica argomenti per quella che Ferrajoli definisce «una campagna diffamatoria nei confronti della magistratura italiana che rischia di offuscare il ruolo della giurisdizione quale dimensione essenziale della democrazia».