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Prove omesse, chat taroccate, video nascosti. C’è di tutto nell’inchiesta che rappresenta una vera e propria bomba lanciata sulla procura di Milano, già devastata dai veleni interni relativi alla gestione dell’inchiesta Eni e dei verbali dell’ex avvocato Piero Amara. La procura di Brescia ha infatti iscritto sul registro degli indagati il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, con l'ipotesi di rifiuto d'atti d'ufficio in relazione al processo Eni/Shell-Nigeria, chiusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati, tra cui l’attuale Ad di Eni, Claudio Descalzi, e l’ex numero uno, Paolo Scaroni. L'iscrizione risalirebbe a una decina di giorni fa, dopo l'interrogatorio del pm Paolo Storari, anche lui indagato a Brescia per il caso dei verbali dell'avvocato Amara e i contrasti con i vertici del suo ufficio nella gestione del fascicolo sul falso complotto Eni. E proprio dalle dichiarazioni di Storari sarebbero partiti gli approfondimenti dei colleghi di Brescia, che nella giornata di mercoledì hanno segnalato il procedimento anche al pg della Cassazione Salvi, titolare dell’azione disciplinare, al Consiglio superiore della magistratura e al ministero della Giustizia, dopo aver effettuato, lunedì scorso, una perquisizione informatica finalizzata ad acquisire le email sulle caselle dei due magistrati. L’indagine si basa sulla gestione delle prove nel processo sulla presunta maxi tangente da 1 miliardo e 92 milioni versata ai politici nigeriani per l’ottenimento del blocco petrolifero per il giacimento Opl245, tangente mai provata in quanto mancano «prove certe ed affidabili dell’esistenza dell’accordo corruttivo contestato», si legge nella sentenza depositata mercoledì. E tra le questioni scandagliate dalla procura di Brescia c’è anche quella del video favorevole agli imputati girato da Amara, che dimostrerebbe il tentativo del grande accusatore Vincenzo Armanna di screditare i vertici della compagnia, video che la procura di Brescia ha chiesto di acquisire. Il filmato è stato girato in maniera clandestina da Piero Amara, ex avvocato esterno dell’Eni, che testimonia la volontà di Armanna di ricattare i vertici della società, per gettare su di loro «valanghe di merda» e avviare una devastante campagna mediatica. De Pasquale, nel corso del processo, ha ammesso di essere in possesso «già da tempo» di quella prova, spiegando di «non averlo né portato a conoscenza delle difese né sottoposto all’attenzione del Tribunale perché ritenuto non rilevante». Nessuna volontà di «arrecare qualsiasi vulnus», aveva chiarito, «noi ci siamo attenuti solo a quegli atti che direttamente potevano toccare l’evoluzione delle dichiarazioni di Armanna». Ma per il tribunale si trattava di elementi fondamentali, al punto che per i giudici risulta «incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Vincenzo Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e della auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati. Una simile decisione processuale, se portata a compimento – continua la sentenza -, avrebbe avuto quale effetto la sottrazione alla conoscenza delle difese e del Tribunale di un dato processuale di estrema rilevanza». Il video riprendeva un incontro tra Amara (all’epoca ancora collaboratore di Eni), Armanna, Paolo Quinto (presentato come «capo della segreteria di Anna Finocchiaro») e Andrea Peruzy (segretario generale della Fondazione Italianieuropei), incontro intrattenuto il 28 luglio 2014, ovvero due giorni prima che Armanna (da poco licenziato dalla compagnia ma comunque attivo negli investimenti all’estero nel settore petrolifero) si presentasse in Procura per rendere dichiarazioni spontanee dal contenuto fortemente accusatorio nei confronti di Eni e dei suoi dirigenti. Armanna manifestava il proprio interesse a «cambiare i capi della Nigeria» per piazzare, al loro posto, «uomini di suo gradimento ed essere così agevolato negli affari». E per fare ciò aveva intenzione di «gettare discredito sulle persone giudicate di ostacolo», anche adoperandosi per «far arrivare un avviso di garanzia», intenzione confermata dallo stesso durante il processo. Ma non sarebbe questo il fatto più eclatante della vicenda. Dopo gli interrogatori di Amara nell’ambito dell’inchiesta sul falso complotto Eni, Storari avrebbe trasmesso ai pm del caso Opl 245 delle chat trovate nel telefono di Armanna, dalle quali sarebbe emerso come quest’ultimo avesse versato 50mila dollari al teste Isaak Eke per fargli rilasciare delle dichiarazioni accusatorie nei confronti di alcuni coimputati. Tuttavia, nel processo sono state poi depositate dalla difesa di Armanna solo le presunte chat «false» che la stessa aveva già prodotto a De Pasquale e Spadaro. Eke è colui che è stato definito il “vero Victor Nwafor, funzionario dello State Security Service (Sss) della Nigeria”, indicato come persona informata «sugli incontri tra Goodluck Jonathan e altri membri del governo nigeriano con Scaroni, Descalzi e altri manager Eni, sui rapporti con Vincenzo Armanna e le discussioni avute con lo stesso in merito a Opl 245 e alla distribuzione del denaro derivante dall’operazione». Secondo gli atti trasmessi da Storari, lo stesso non si sarebbe presentato in aula ritenendo il “compenso” di 50mila dollari insufficiente, mandando al suo posto un amico. Il ruolo di Eke/Nwafor nel processo è centrale: sarebbe lui la fonte di tutte le informazioni di cui era in possesso Armanna relativamente alla presunta corruzione e ai pagamenti indebiti. La prima persona convocata in aula come Victor Nwafor ha però negato di aver mai conosciuto Armanna e aver riferito alcunché sul tema. Qualche mese dopo, Armanna ha dunque affermato di non aver riconosciuto, nel testimone sentito davanti ai giudici, la persona con cui aveva parlato, affermando di aver saputo che il nome dell’informatore che si faceva chiamare Nwafor era, in realtà,Isaak Eke, annunciando che lo stesso si era detto disponibile, tramite lettera, a prendere parte al processo per fornire la sua versione dei fatti. Ma anche questa testimonianza si è rivelata un buco nell’acqua: in aula l’uomo ha riferito di aver incontrato Armanna solo due volte e di non essersi mai presentato come Victor Nwafor, precisando inoltre che la lettera trasmessa il 19 novembre alla procura di Milano era stata scritta dall’amico comune Timi Aya, il quale gli aveva chiesto di firmarla rassicurandolo che la missiva sarebbe stata utilizzata in un luogo privato. Infine ha negato di aver mai conosciuto manager o rappresentanti di Eni o delle sue controllate. Una serie di contraddizioni che hanno spinto il collegio a definire «imbarazzante» la sua audizione. La vicenda, ora, rappresenta un nuovo capitolo nella guerra intestina alla procura, che rischia di complicare il percorso della nomina del nuovo procuratore, visto l’imminente pensionamento di Francesco Greco, previsto a novembre. Ma prova anche l’isolamento vissuto da Storari all’interno della procura meneghina e la diversità di veduta sulla gestione dei fascicoli, sfociata nel caso dei verbali consegnati a Piercamillo Davigo, vicenda per la quale ora è indagato a Brescia. «Prendo atto di queste informazioni - ha commentato al Dubbio l’avvocato Paolo Dalla Sala, difensore di Storari - e continuo a sostenere l’onestà e la correttezza dell’operato del dottor Storari. Ne deduco che, evidentemente, tali iniziative conseguono anche alle sue dichiarazioni». Laconico anche il commento di Enrico de Castiglione, difensore di Scaroni. «Il processo - ha sottolineato - ha dimostrato ampiamente l’innocenza di tutti gli assistiti, ma si scoprono piano piano cose che erano state taciute».