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Una prova a discarico degli imputati del processo Eni-Nigeria tenuta nel cassetto dalla Procura per 5 anni, nonostante costituisse un elemento decisivo per chiarire le posizioni delle persone coinvolte. È quanto si legge nelle quasi 500 pagine della sentenza con la quale il Tribunale di Milano, presieduto da Marco Tremolada, ha assolto a marzo scorso i vertici della società petrolifera, pagine con le quali il collegio smonta, di fatto, la più grande inchiesta condotta dalla procura meneghina negli ultimi anni. La prova in questione è un video, girato in maniera clandestina dall’avvocato Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza di una fantomatica loggia denominata “Ungheria”, che testimonia un fatto clamoroso: la volontà di Vincenzo Armanna, grande accusatore nel processo per le presunte tangenti nell’affare Opl245, di ricattare i vertici Eni, per gettare su di loro «valanghe di merda» e avviare una devastante campagna mediatica. Il tribunale, lo scorso 17 marzo, ha assolto l’attuale Ad di Eni, Claudio Descalzi, e l’ex numero uno, Paolo Scaroni e di conseguenza anche le due società imputate nel processo: Eni e Shell. L’indagine condotta dalla Procura di Milano (dall’aggiunto Fabio De Pasquale e dal pm Sergio Spadaro) puntava a dimostrare il pagamento di una maxi-tangente da 1 miliardo e 92 milioni ai politici per l’ottenimento del blocco petrolifero: secondo l’accusa la più grande tangente mai pagata da una compagnia italiana. La scoperta delle difese A svelare l’esistenza del video al Tribunale nel corso dell’udienza del 23 luglio 2019 sono stati i difensori di un altro imputato, Roberto Casula, che in un diverso procedimento hanno scoperto tra gli atti depositati dalla Procura un verbale della Guardia di Finanza in cui si dava atto dell’esistenza di un video ritenuto dai difensori «assai rilevante» per il processo Eni. Video del quale lo stesso De Pasquale ha ammesso di essere in possesso «già da tempo», spiegando di «non averlo né portato a conoscenza delle difese né sottoposto all’attenzione del Tribunale perché ritenuto non rilevante». Nessuna volontà di «arrecare qualsiasi vulnus», aveva chiarito il pm, «noi ci siamo attenuti solo a quegli atti che direttamente potevano toccare l’evoluzione delle dichiarazioni di Armanna». Il video, registrato segretamente da Amara (all’epoca collaboratore di Eni) durante un incontro avuto il 28 luglio 2014 con Armanna, Paolo Quinto (presentato come «capo della segreteria di Anna Finocchiaro») e Andrea Peruzy (segretario generale della Fondazione Italianieuropei), era stato girato due giorni prima che Armanna (da poco licenziato dalla compagnia ma comunque attivo negli investimenti all’estero nel settore petrolifero) si presentasse in Procura per rendere dichiarazioni spontanee dal contenuto fortemente accusatorio nei confronti di Eni e dei suoi dirigenti. Uno degli affari da lui seguiti riguardava proprio la Nigeria e l’acquisto di blocchi di proprietà di Eni. Dal video si evince come Armanna «vedeva un ostacolo ai suoi progetti nella presenza di Ciro Antonio Pagano in Nigeria, il quale era considerato un uomo di fiducia di Roberto Casula. Proprio per superare queste difficoltà, Vincenzo Armanna afferma che si sarebbe adoperato per “fargli arrivare un avviso di garanzia”». Armanna aveva dunque interesse a «cambiare i capi della Nigeria» per piazzare, al loro posto, «uomini di suo gradimento ed essere così agevolato negli affari». E per fare ciò aveva intenzione di «gettare discredito sulle persone giudicate di ostacolo», intenzione confermata dallo stesso durante il processo. Elementi importanti, dunque, al punto che per i giudici risulta «incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Vincenzo Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e della auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati. Una simile decisione processuale, se portata a compimento - continua la sentenza -, avrebbe avuto quale effetto la sottrazione alla conoscenza delle difese e del Tribunale di un dato processuale di estrema rilevanza». Sul punto, continuano i giudici, i pm hanno «minimizzato», sottolineando come Ranco non sia mai stata indagata e come Pagano sia stato coinvolto nelle indagini solo molto tempo dopo. Tuttavia, continua la sentenza, occorre leggere «il linguaggio ricattatorio di chi preannuncia il proposito di rendere dichiarazioni accusatorie che certamente avrebbero colpito i vertici dell’Eni quantomeno in modo indiretto». All’epoca della trattativa Opl245, infatti, Ranco era la responsabile dei negoziati internazionali e faceva riferimento direttamente al dg Claudio Descalzi, «il cui coinvolgimento nella vicenda sarebbe quindi stato un’inevitabile conseguenza delle dichiarazioni di Armanna». L’intento era sollevare ombre sulla gestione di Eni dell’acquisizione della concessione di prospezione petrolifera, in modo da ottenere – attraverso l’intervento di Amara – «l’allontanamento dalla Nigeria di coloro che avevano partecipato al negozio, in particolare di Ciro Antonio Pagano, sostituendolo con qualcuno di più accomodante verso la conclusione dell’affare in corso», aspetto che non è stato oggetto di alcun approfondimento istruttorio. Il contenuto del video, per i giudici, è di per sé «dirompente in termini di valutazione dell’attendibilità intrinseca perché rivela che Armanna, licenziato dall’Eni un anno prima, aveva cercato di ricattare i vertici della società petrolifera preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda” ad alcuni dirigenti apicali della compagnia». Inquietante, per i giudici, il riferimento agli avvisi di garanzia, che dimostrerebbe «l’attitudine del soggetto a sfruttare per fini personali il sistema giudiziario e il conseguente eco mediatico derivante dalla pubblicazione di notizie riguardanti le indagini in corso». L’audizione di Amara Ma il Tribunale critica anche il tentativo della procura di far entrare nel processo le dichiarazioni di Amara a proposito del tentativo dei vertici Eni di indurlo a ritrattare le proprie dichiarazioni, fatti su cui il pm aveva aperto un procedimento fin dal 2017. Amara avrebbe dovuto riferire anche su un tentativo di depistaggio delle indagini realizzato mediante accuse rivolte ai pubblici ministeri che indagavano sul caso Eni «e su non meglio precisate “interferenze da parte della difesa Eni e di taluni imputati nei confronti di magistrati di uffici giudiziari milanesi con riferimento al processo Opl245». Amara aveva infatti dichiarato a Milano di aver saputo da Michele Bianco, a capo dell’ufficio legale di Eni, e dalla collega Alessandra Geraci, che Paola Severino e Nerio Diodà, tra i principali difensori del processo, “avevano accesso” al presidente Tremolada. Tali dichiarazioni erano state trasmesse alla procura di Brescia, competente per i reati commessi dai magistrati milanesi, che poco dopo archiviò il caso. De Pasquale, nel frattempo, aveva tentato di far entrare tali dichiarazioni nel processo, senza riuscirci. «L’inutilità della ricerca di conferme al racconto di Armanna su possibili tentativi di condizionamento derivava, in primo luogo, dalla considerazione che le ulteriori dichiarazioni da lui rese si erano già rivelate inattendibili ed erano state smentite dai testimoni di riferimento - continua la sentenza -. Il tentativo di inquinamento era stato riferito e “superato” dallo stesso Armanna, il quale aveva confermato in dibattimento le affermazioni accusatorie che, a suo dire, i vertici Eni avrebbero cercato di neutralizzare. Inoltre, le dichiarazioni che avrebbe potuto rendere Piero Amara non contenevano conoscenze dirette, ma si riferivano a notizie apprese da altri, come facilmente desumibile dai capitolati della prova così come richiesta dall’accusa, prova che aveva quindi una mera funzione esplorativa, o, comunque, introduttiva di altre prove». Ad ogni modo, la conferma di quanto riferito da Armanna circa un tentativo di indurlo a ritrattare le sue precedenti dichiarazioni non avrebbe costituito un indizio di reità a carico di Claudio Descalzi. «Il suo intento primario non era certo quello di offrire il proprio contributo conoscitivo alla giustizia, ma la sua presentazione perseguiva lo scopo precipuo di gettare fango sui dirigenti Eni che potevano ostacolarne gli affari, di mettere in imbarazzo la compagnia e, in ultima analisi, di sollevare un caso mediatico giudiziario che lo avrebbe messo in una posizione di forza rispetto alla sua ex società. Del resto, che il reale fine dell’imputato fosse quello di creare il maggior clamore possibile è confermato dalla circostanza che, poche settimane dopo la deposizione in Procura, egli ha rilasciato un’intervista a un quotidiano nazionale - si legge nella sentenza -. A fronte di questo scenario, Eni era una società quotata in borsa che, pur essendo certa di non aver commesso alcun illecito ed essendo consapevole dell’intento ricattatorio di Armanna, si trovava esposta a un immenso pregiudizio di immagine ed economico causato dalla diffusione di notizie circa il proprio asserito coinvolgimento in una corruzione di oltre un miliardo di dollari. Alla luce di questa premesse, occorre ora domandarsi quale sia il significato da attribuire a un eventuale intervento di Claudio Descalzi volto a indurre Armanna a ritrattare le accuse. A parere del Tribunale, una simile condotta – anche ove sussistente – dovrebbe essere interpretata come il comportamento di un amministratore che, pur di proteggere la propria compagine dalle calunnie che le erano rivolte, accetta di scendere a patti con il ricattatore e, in cambio della cessazione delle attività diffamatorie verso la società, gli accorda quanto richiesto, ossia la promessa della riassunzione in azienda».