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Le parole con cui la gip di Verbania, Donatella Banci Buonamici, “giustifica” la sua decisione di non confermare le misure cautelari per gli indagati del disastro della funivia sono una lezione di civiltà giuridica. Perché in democrazia, in uno Stato di diritto, la gente non finisce in cella semplicemente perché un pubblico ministero lo ritiene opportuno. Esistono delle garanzie ed esistono dei giudici a tutelarle. Eppure, persino le parole della dottoressa Buonamici presentano, in potenza, il seme di una possibile degenerazione giudiziaria. Riconoscendo tutte le “attenuanti” del caso alla gip - inseguita per strada dai giornalisti - non si può ignorare che, rispondendo alla curiosità dell’informazione, la giudice diventa parte di quello stesso cortocircuito di cui spesso sono protagonisti i suoi colleghi pubblici ministeri. Da sempre, dalle colonne di questo giornale, ci battiamo contro la spettacolarizzazione della giustizia, contro le conferenze stampa delle Procure che vorrebbero esaurire la complessità di un processo alle fase delle indagini preliminari, contro i giudizi formulati sui giornali e in tv invece che in un’aula di Tribunale. Per questo la pur condivisibile presa di posizione di Buonamici stona proprio con quelle garanzie democratiche che la gip intende esaltare. Perché in democrazia la forma è sostanza, non orpello. E la forma prevede che un giudice parli con le sentenze, non con interviste. Applicare la legge e motivare le proprie decisioni è tutto ciò che un giudice dovrebbe fare per tentare di recuperare quel rapporto di fiducia ormai sfilacciato tra i cittadini e le toghe. Altimenti la diga, già fragile per le continue bordate di alcuni pm, finirebbe per crollare definitivamente. Non è un caso che secondo i dati Eurispes e secondo un recente sondaggio Ipsos meno di un cittadino su due dichiara di fidarsi della magistratura. Un dato drammatico se solo paragonato a undici anni fa, quando le toghe godevano ancora di un’altissima popolarità tra gli italiani: il 70 per cento. Ora quel legame sembra essersi dissolto e non solo per colpa del caso Palamara o dei verbali di Amara diffusi nei sottoscala. Il cittadino non crede più al magistrato super partes, all’eroe civile alla ricerca della verità giudiziaria, ma vede l’uomo dietro la toga, con i suoi interessi, le sue ambizioni, le sue rivincite da prendere. Quando il processo diventa mediatico, alla lunga, ci perdono tutti, anche quelli che pensavano di recitare la parte dei “buoni”. Per questo, anche Donatella Banci Buonamici farebbe bene a evitare proclami pubblici. Ne va della tranquillità degli indagati, della serenità parenti delle vittime e della credibilità della magistratura tuta.