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Non si può giustificare un fermo con il clamore mediatico. E non si può ipotizzare il pericolo di fuga solo sulla base della gravità del reato contestato, per quanto odioso e per quanto tragiche siano state le sue conseguenze. Si racchiude tutta qui, in soldoni, la decisione del gip di Verbania, Donatella Banci Buonamici, che ha definito «irrilevanti» le ragioni alla base della richiesta di convalidare il fermo per le tre persone indagate per la strage della funivia di Stresa-Mottarone. Si tratta, come noto, di Gabriele Tadini, responsabile del funzionamento dell’impianto e reo confesso, per il quale il gip ha disposto i domiciliari, Enrico Perocchio, direttore di esercizio dell’impianto e Luigi Nerini, amministratore unico di Ferrovie del Mottarone, per i quali invece il gip ha disposto la scarcerazione. Tutti rimangono indagati per gravi reati: rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, omicidio colposo e lesioni colpose, mentre il solo Tadini risulta anche indagato per falsità ideologica, non avendo segnalato nell’apposito registro il malfunzionamento del sistema frenante della cabina numero 3, che il 23 maggio, è precipitata a folle velocità verso valle, sganciandosi dalla fune e schiantandosi a terra, fino ad impattare contro gli alberi, provocando la morte di 14 persone e lesioni gravi all’unico sopravvissuto, un bimbo di 6 anni. La degenerazione mediatica La vicenda è subito diventata un caso mediatico: «Gli inquirenti - denunciava domenica l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere penali -, in sole 48 ore, hanno affermato pubblicamente di aver individuato e fermato i primi (ma non gli unici) responsabili della tragedia. Non solo: diffondono le loro dichiarazioni che portano a proclami di responsabilità in quanto “la cabina era a rischio. E lo sapevano”». Ma non solo: nelle motivazioni del fermo disposto dalla procura veniva tirato in ballo, come motivazione, «l'eccezionale clamore a livello anche internazionale», giustificando, di fatto, la privazione della libertà di tre persone con la risonanza della stessa indagine sui media. Una tesi totalmente bocciata dalla gip e, prima, dai penalisti del Piemonte occidentale e della Valle d’Aosta, che attraverso il presidente Alberto De Sanctis avevano analizzato l’uso dello strumento del fermo. «Lo abbiamo fatto prescindendo completamente dai fatti - spiega De Sanctis al Dubbio -. Ci era sembrato singolare, in una vicenda come questa, pensare di applicare un istituto che consente di portare un uomo in carcere soltanto per il pericolo di fuga, dal momento che non c’erano prove a riguardo. Si tratta di un’ipotesi di reato molto grave, ma colposa, che riguarda persone che hanno risorse economiche, famiglie e lavoro qui: è difficile che siano pronti a fuggire a poche ore dalle indagini». La seconda riflessione riguarda, invece, la gogna: «C’è stata una ricostruzione accusatoria fatta in pochi giorni e comunicata con plurime conferenze stampa, nelle quali si spiegava la ricostruzione delle ipotesi di reato con la logica del profitto - aggiunge -. La vicenda merita forse un maggiore approfondimento prima di dare in pasto ai giornalisti ricostruzioni già cristallizzate. Ci teniamo molto ad affermare un principio che è nella direttiva dell’Ue sul principio di non colpevolezza, inteso non solo in senso endoprocessuale, ma anche per quanto riguarda la comunicazione giornalistica. Le informazioni, in una fase così delicata, vanno centellinate». L'ira dell’Anm Ma l’esternazione di De Sanctis non è andata bene alla giunta dell’Anm del Piemonte, che si è schierata in difesa della procuratrice Bossi poche ore dopo la decisione del gip, che pure dava ragione ai penalisti. «Piena solidarietà ai colleghi della procura di Verbania che, con costante impegno ed indiscutibile spirito di servizio, si dedicano da giorni ad un’indagine complessa quanto dolorosa», si legge nella nota, con la quale l’Anm «stigmatizza come inopportune e fuorvianti le pesanti critiche portate ad un’indagine in corso», tali da insinuare «inaccettabilmente il sospetto che siano state adottate scelte processuali al limite della legalità o addirittura per compiacere il sentire popolare». Affermazioni che, secondo i magistrati, rappresenterebbero un «inaccettabile strumento di pressione e condizionamento dell’attività giudiziaria, vieppiù in quanto provenienti da organo in nessun modo chiamato istituzionalmente ad esprimere giudizi sulle modalità di indagine ed anzi sistematicamente impegnato nella delegittimazione dei pubblici ministeri, che si vorrebbero sottrarre alle garanzie della giurisdizione». Accuse respinte al mittente dai penalisti, che hanno definito «fuori luogo» la polemica, in quanto «non c’è stato nessun attacco ai magistrati». «È singolare che l’Anm, associazione rappresentativa dei pubblici ministeri ma anche - è bene ricordarlo - dei giudici, esprima indignazione per una nostra legittima riflessione giuridica, per nulla “inopportuna e fuorviante”, sull’uso dell’istituto del fermo di indiziato di delitto, stando attenti a non entrare nel merito delle responsabilità, tutte da accertare nel processo - afferma De Sanctis -. È doppiamente singolare perché il giudice, che l’Anm dovrebbe rappresentare, scrive nel suo provvedimento che “il fermo è stato eseguito fuori dai casi previsti dalla legge”. Non lo scrive la Camera penale, lo scrive un magistrato. La gogna mediatica è stata riservata ad altri e su questo invitiamo tutti ad una pacata riflessione». La reazione della procuratrice La procuratrice Bossi, commentando la decisione del gip, ha invece evidenziato due cose: da un lato che la decisione proverebbe l'indipendenza del giudicante dall'inquirente e, dunque, la superfluità della separazione delle carriere. Ma ciò non senza tradire la propria delusione, affermando che «prendevamo insieme il caffè, per un po’ lo berrò da sola». Una dimostrazione, secondo l’Ucpi, che l’indipendenza professata poco prima si tramuta in «un atto di inimicizia»: «La regola che ci si aspetta debba essere di norma rispettata è l’adesione alla ipotesi accusatoria, non fosse altro che per tutelare e proteggere, dichiara la dottoressa Bossi, “l’enorme impegno concentrato in pochi giorni, soprattutto da parte dei Carabinieri». Un ulteriore spot, secondo i penalisti, per la «ormai imprescindibile necessità della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante».