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Nello scontro in atto negli uffici giudiziari di Verbania tra la procuratrice Olimpia Bossi e la gip Donatella Buonamici, la quale ha sostenuto che il fermo dei 3 indagati «è stato eseguito al di fuori dei casi previsti dalla legge e non può essere convalidato», capita di leggere dichiarazioni sorprendenti proprio del pm che abbiamo imparato a conoscere, a seguito della strage della funivia Stresa Mottarone, in virtù della sua sovraesposizione mediatica: «Prendevamo insieme il caffè, per un po’ lo berrò da sola», ha detto la Bossi in una dichiarazione a La Stampa. «Se ci fosse effettivamente tra giudice e pm un rapporto di totale indipendenza», commenta con il Dubbio l’avvocato Rinaldo Romanelli, responsabile dell’osservatorio Ordinamento giudiziario dell’Unione Camere penali, «e se il pm si aspettasse dal giudice solo l’esercizio della sua funzione di limite al potere del pm e di garanzia che le norme siano applicate correttamente, non dovrebbe provare alcun tipo di dispiacere quando una richiesta non è accolta. Il dispiacere lo provi se ti aspetti di poter condividere una funzione con qualcuno». La reazione è stata forse istintiva? «È la reazione di chi è abituato, quando prende il caffè alla macchinetta, a parlare anche dei procedimenti che segue, a condividerli col giudice e aspettarsi che quel giudice la pensi come lei. La dottoressa Bossi è talmente convinta di quello che dice che lo ha fatto in buona fede, sennò se lo sarebbe tenuto per sé. Evidentemente non si rende conto fino in fondo di quello che ha detto: sarebbe come dire che io mi offendo se un giudice non accoglie una mia istanza difensiva e quindi poi non ci prendo più il caffè. Ammesso che ci prenda un caffè, io mi offendo soltanto se un giudice non legge le carte e vedo che c’è un provvedimento scritto palesemente male». In un’altra dichiarazione, al giornalista che le ha fatto notare come le divergenze tra Procura e Tribunale siano marcate, la procuratrice Bossi ha risposto: «Sono la giusta risposta a chi sostiene che ci siano collusioni tra i vari rami della magistratura e invoca la separazione delle carriere: ciascuno fa con coscienza il proprio mestiere e lavora con indipendenza». Ma secondo Romanelli «innanzitutto un episodio non fa statistica: la nostra esperienza in generale è di segno opposto, soprattutto nel momento delle indagini c’è una particolare vicinanza tra pm e gip. Poi quando si celebra il processo e ci si allontana dall’immediatezza degli eventi, questo avviene meno. Tanto è vero che ci sono circa 1.000 indennizzi per ingiusta detenzione l’anno, visto che le misure cautelari molto spesso si emettono con troppo facilità, anche a carico di indagati che poi magari vengono assolti». L’Ucpi si batte da sempre per avere più trasparenza nell’amministrazione della giustizia, a partire proprio dai dati concernenti il numero di misure cautelari richieste dal pm e concesse dal gip: «Sarebbe assolutamente importante conoscere questi numeri: al momento sappiamo solo che il 35% dei detenuti è in attesa di giudizio definitivo, il che induce a pensare a un abuso della misura cautelare in carcere». La vicenda ci offre lo spunto per tornare a parlare di separazione delle carriere, tema non all’ordine del giorno nelle riforme della giustizia: eppure mai come adesso la modifica sembra “reclamata” dagli eventi: «È una riforma che i magistrati non vogliono e la politica si adegua, come ha sempre fatto. I magistrati devono difendere la corporazione e il potere vero che è in capo alle Procure. L'unico argine, previsto dalla Costituzione e dal codice di procedura penale, a questo strapotere è», ricorda Romanelli, «il controllo del giudice. Il quale, proprio per questo, dovrebbe essere non solo imparziale ma terzo, appartenente a un altro organismo rispetto a quello del pm». Ma la categoria dei giudici non dovrebbe ostacolare questa riforma, in fondo è solo il pm ad avere bisogno della conferma del proprio impianto accusatorio da parte della magistratura giudicante. «Non dimentichiamo però che i pm, pur essendo solo circa un quinto dei magistrati, hanno un peso preminente nelle varie correnti che compongono l’Anm: basti pensare che negli ultimi vent’anni tutti i presidenti dell’associazione, tranne l’ultimo, sono stati appunto pm. Come è noto, sono le correnti dell’Anm ad avere il controllo del Csm e di conseguenza il controllo sulle valutazioni professionali dei magistrati, e quindi anche sulle carriere dei giudici. In un contesto del genere, anche i giudici che pensano che le carriere debbano essere separate, si guardano bene dal dirlo pubblicamente».