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Siamo entrati nel trentesimo anno, un tempo oggettivamente enorme. Benché la memoria non si rassegni all’ingiustizia di quel 23 maggio, in un paese normale, sarebbe giunta l’ora di cedere il passo alla storia e, soprattutto, alla politica che ne dovrebbe precedere e, quando può, orientare il corso. In Italia storici e politici restano, invece, in silenzio; avvolti nella retorica dei luoghi comuni e pregionieri di un’enfasi a tratti stucchevole; paralizzati dall’attesa che qualche magistrato, qualche pentito, qualcuno insomma dischiuda una verità processuale da poter analizzare e - come successo troppe volte - accettare supinamente, magari confezionando un libro o cimentandosi in qualche convegno.Nessuno può stabilire se, a distanza di tre decenni da Capaci, ci sia davvero la possibilità di giungere a una verità che superi il vaglio dei tre gradi di giudizio e porti a una nuova, non importa se in tutto o solo in parte diversa, narrazione di quell’evento.Sia chiaro è del tutto legittimo che si sia ipotizzato per decenni che alcuni sanguinari “viddani”, scesi da Corleone con le scarpe imbrattate di terra, non avrebbero potuto concepire un attentato di quelle proporzioni e, successivamente, attuare una stagione di stragi senza un’ispirazione altrui, senza che una mente superiore ne abbia ispirato le gesta. E’ legittimo, ma a oggi non ha trovato alcuna dimostrazione né alcun riscontro attendibile e convincente. E’ un’ipotesi, suggestiva, doverosa, ma resta una mera ipotesi, più volte sperimentata e più volte messa da parte; utile solo per alimentare teorie complottistiche e dietrologiche avvincenti, ma indimostrate.E’ vero che Riina fosse un sorta di campagnolo perfido e di profonda malvagità e questo dovrebbe dirlo soprattutto chi ha avuto la possibilità di confrontarsi con lui faccia e faccia in aula e non al riparo di fredde e asettiche videoconferenze. Ma, a ben guardare, si devono pur porre alcune domande: c'è qualcosa che distingueva in.modo apprezzabile il Capo dei capi da quel Bin Laden che, con il suo Ak-47 tra le montagne afgane, è stato capace di mettere in ginocchio gli Stati Uniti con un attacco terroristico che, tuttora, impressiona gli analisti e resta un modello di irraggiungibile preparazione tecnica. O cosa segnava la differenza tra zio Totò e al-Baghdādī che, con il suo pastrano nero, ha messo in piedi una nazione autoproclamandosi a suon di massacri il califfo dello Stato islamico? E se i capi delle Br vantavano qualche studio scolastico in più e qualche lettura meno arrangiata dei corleonesi, resta lecito chiedersi cosa distingueva profondamente Riina dal Moretti dell’attacco al cuore dello Stato di via Fani con la sua “geometrica potenza”? Certo anche per Aldo Moro e per decenni si è cercato un “grande vecchio” un ispiratore, un suggeritore, un pianificatore, fino a che tutto si è estinto in un oblio, a questo punto, tanto inevitabile quanto imbarazzato.In tutti questi casi è la perfetta esecuzione del male che lascia sbigottiti e increduli. La convinzione - molto italica, ma non solo - che dietro ogni atto di violenza inaspettato ed eclatante ci debba essere altro, qualcosa di superiore che spieghi la nostra incredulità e ci assolva dalla nostra incapacità di prevedere, di anticipare, di prevenire. Ci deve per forza essere uno stratega lucido che muove esecutori e burattini, altrimenti perché ci ha colti di sorpresa.Senza scomodare per l’ennesima volta “la banalità del male”, tuttavia ci si dovrebbe rendere conto - con un certo realismo - che ogni cosa si rende possibile nella mente e nelle mani di chi abbia strumenti idonei per realizzarla, persino un genocidio affidato a modesti contabili di morte. Tutto indicava che Cosa nostra avrebbe messo mano alla vita dei magistrati, rei di averne smascherato la fragilità, anche umana. Ci sono mille ragioni per cui quelle morti erano prevedibili e le precauzioni non erano mancate, ma erano forse anche inevitabili alla luce delle enormi disponibilità militari dei corleonesi a quel tempo. Attentati come quello di Capaci sono avvenuti, a centinaia, nel mondo, eseguiti da gruppi paramilitari, fanatici islamisti, separatisti di ogni genere, trafficanti di droga, mafiosi di ogni risma semplicemente perché è stato possibile eseguirli e perché si è ritenuto fosse utile portarli a compimento con modalità così eclatanti, terroristiche appunto. Il 20 dicembre 1973 il presidente del governo franchista, Carrero Blanco, e la sua scorta vennero uccisi con una carica di esplosivo posta sotto il piano stradale che lanciò la sua macchina in aria a un'altezza di oltre 30 metri facendola atterrare sulla terrazza di un palazzo. Venti anni prima di Capaci, i separatisti baschi dell’Eta avevano consumato un attentato che tanto somiglia, per la sua eclatante violenza, alla strage di Giovanni Falcone. Un attentato tra le dozzine che potrebbero contarsi in una lunga scia di morte.Occorre ammettere le proprie fragilità e la propria impotenza di fronte a un male incontenibile e senza farsi scudo di livelli di potere inesplorati e, al momento, risultati inesistenti.La storia e la politica, si diceva. Entrambe chiamate al compito più importante, dopo tanto tempo, ossia quello di accertare quale sia stato il contesto politico e istituzionale che ha reso possibile l’azione stragista di Cosa nostra. Stabilire con precisione quali siano state le fratture che - soprattutto all’interno della magistratura - hanno segnato l’irreversibile isolamento di Falcone. Verificare quale sia stato l’effettivo contenuto e l’effettiva matrice delle prese di posizione che furono alla base della sua bocciatura come consigliere istruttore a Palermo, della sua mancata elezione al Csm, della sua certa soccombenza nella corsa alla Superprocura antimafia, destinata a vedere vincitore, in quel 1992, un uomo di assoluto valore come Agostino Cordova, un magistrato che aveva fatto dell’attacco alla massoneria deviata e ai connessi gangli illegali la cifra del proprio impegno investigativo. Spiegare se sia vero che proprio l’omicidio di Giovanni Falcone sbarrò la strada - per un inevitabile contrappasso politico - al procuratore Cordova verso i vertici dell’antimafia italiana, capovolgendone le sorti. Se sia possibile che, con una sola azione, interessi diversi, operanti per ragioni diverse e mossi da intenti diversi abbiano saputo profittare di un contesto per liberarsi di toghe scomode, massimamente invise ai propri stessi colleghi. Ci sono questioni, com’é evidente, che vanno oltre la pur indefettibile individuazione in sede giudiziaria dei responsabili della strage; c’è la necessità di mappare il clima politico e istituzionale dentro e intorno la magistratura italiana in quel periodo (e che ha ben descritto Maria Antonietta Calabrò sull’ Huffington Post del 23 scorso).Un contesto che, tra la Tangentopoli milanese e lo stragismo palermitano, ha profondamente modificato il ruolo della magistratura italiana nel rapporto con gli altri poteri dello Stato e all’interno della collettività nazionale. Una società, in cui lo sdegno e la rabbia per le stragi del 1992, hanno alimentato e sorretto in modo decisivo l’azione di contrasto alla corruzione. Senza Capaci, probabilmente, l'azione della magistratura milanese nel 1992 non avrebbe avuto il sostegno, in certi casi la tolleranza e comunque la condivisione di strati maggioritari della società italiana e dei mass media nazionali e un ceto politico, probabilmente, sarebbe sopravvissuto al crollo.Non sembrano in grado oggi le aule di giustizia di dare una risposta a questi interrogativi perché è sempre in agguato il rischio di mettere da parte le prove e di inciampare nelle illazioni e nelle supposizioni. E’ indispensabile un approccio laico, freddo, oggettivo che possa volgere lo sguardo anche entro le mura della cittadella delle toghe italiane di quel tempo e degli anni a venire e scrutarne le liaison politiche rese manifeste poi da incarichi e nomine di ogni tipo. Per stabilire quali gruppi e quali ceti abbiano tratto veramente vantaggio dalla decapitazione per mano mafiosa, posto che i Corleonesi hanno perso, sono morti e moriranno ancora in cella