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Cartabia
Marta Cartabia parla spesso di carcere. Ne ha parlato tante volte da giudice e presidente della Consulta. Lo ha fatto nei primi 60 giorni da ministra della Giustizia. Ma le parole pronunciate ieri a Bergamo durante la visita per l’intitolazione del carcere a don Fausto Resmini pesano di più, perché arrivano pochi giorni dopo la sentenza sull’ergastolo ostativo. E l’investitura conferita dalla Corte costituzionale al legislatore è una prova che la guardasigilli non elude.
Lo lascia intendere in un ampio intervento sul valore del «reinserimento sociale», non scindibile dalla «forte educazione» di cui ha dato un magistrale esempio proprio don Resmini, capellano nel carcere di Bergamo per trent’anni, prima di morire per covid nel marzo 2020. Il passaggio chiave, per la ministra, è nell’accostamento fra il percorso sofferto da giovani «intrappolati» in attività illegali e chi è a pieno titolo coinvolto in organizzazioni mafiose: «Il carcere non è una realtà omogenea: chi lo conosce il da vicino sa bene che ha tanti volti diversi e ha bisogno di strumenti adeguati ad ogni condizione». E appunto, «la risposta da approntare di fronte al crimine commesso da un ragazzo che si è fatto intrappolare nella rete della tossicodipendenza non può essere la stessa di chi ha commesso una violenza sessuale o di chi partecipa al crimine organizzato». È il cuore della riflessione. Diritto alla speranza per tutti non vuol che il trattamento non debba prevedere differenze.
Certo, ricorda Cartabia, «per tutti il carcere deve avere finestre aperte su un futuro, deve essere un tempo volto a un futuro di reinserimento sociale, come esige la Costituzione. Ma le modalità debbono diversificarsi, tenere in conto le specificità di ogni situazione». Da qui la guardasigilli trae lo spunto per il passaggio sulla sentenza della Consulta: «Mi pare sin da ora si possa ritenere che la Corte ha già individuato nell’attuale regime dell’ergastolo ostativo elementi di contrasto con la Costituzione, ma chiede al legislatore di approntare interventi che permettano di rimuovere l’ostatività tenendo conto della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e quindi nel rispetto di regole specifiche e adeguate».
Rilievo non didascalico. Sembra piuttosto un’anticipazione della linea che Cartabia terrà sulla “attuazione” della sentenza. Di cui, dice, si dovranno «leggere con attenzione le motivazioni». Rigore nella diversità dei reati oggetto della pronuncia, ma in ultima analisi nessuna possibilità di opporsi al dettato della Corte, come invece nello scorso fine settimana ha proposto la leader di Fratelli.
Si ha insomma una prima idea del messaggio con cui la ministra si impegnerà affinché l’ergastolo non si trasformi in una mina per la maggioranza. Lo spirito del rigore che non preclude la speranza è nelle parole rivolte, sempre ieri, da Cartabia agli ospiti della comunità educativà per minori di Sorisole, in provincia di Bergamo, intitolata a don Milani. Don Resmini ne è stato direttore, e di lui, spiega la ministra, «mi rimane innanzitutto questa completezza con cui affrontava il problema della giustizia: mentre aveva grande attenzione ai detenuti, al loro disagio, nel frattempo ha costruito una grande opera educativa. Il binomio educazione e giustizia è quello che mi colpisce, sia perché la giustizia deve mirare alla rieducazione sia perché credo che nello spirito di don Fausto la forte educazione possa anche prevenire tanti guai con la giustizia e con la società». Discorso che sembra voler rivelare un’ispirazione non “buonista”, ma imperniata sull’idea della vera carità. D’altra parte Cartabia, nel carcere della città martoriata dal covid, non può sottrarsi neppure dal ricordare come «abbiamo attraversato tutti, la città di Bergamo ancora di più ma tutti, un periodo che potrebbe deprimere la voglia di ricostruire». Ora «abbiamo bisogno di incontrare realtà in cui scocchi quella scintilla di fiducia tra le persone, la società e le istituzioni che ci facciano mettere tutti all’opera».
Vaccini, i dati sul Covid in carcere
Però il carcere è un luogo diverso, «isolato», e lì il disagio «può rischiare di spegnere del tutto la fiducia e la speranza, come provano i drammatici suicidi tra agenti, personale e detenuti». E ieri si è tolto la vita un altro recluso, stavolta al 41 bis di Avellino. In un penitenziario, ricorda la guardasigilli, «tante problematiche connesse alla salute si amplificano», e anche per questo «ci auguriamo che il vaccino possa dare sollievo a tutti e speriamo possa essere, oltre che una fondamentale protezione sanitaria dal virus, anche una luce capace di alleviare le non meno faticose sofferenze psicologiche che la pandemia ha portato con sé».
Ed è proprio sulle somministrazioni negli istituti di pena che la ministra della Giustizia dà un’informazione importante: «Ho appena ricevuto dal commissario Figliuolo la comunicazione che sono riprese le vaccinazioni in carcere». E si deve andare avanti così, «procedere con le vaccinazioni», e a questo scopo, assicura Cartabia, «il capo del Dap Bernardo Petralia e io stessa siamo in continuo contatto con le autorità competenti perché il piano vaccinale non subisca interruzioni fino al suo completamento».
I numeri dicono che «ad oggi, a livello nazionale sono risultati positivi al covid 737 detenuti, 478 agenti di polizia penitenziaria e 41 addetti alle funzioni centrali, mentre sono stati coinvolti nel piano vaccinale 9.624 detenuti, 16.819 agenti e 1.780 addetti». Attenzione. Carità. Diritto alla speranza. Educazione intesa nel rigore del suo significato. Cartabia non pretende di scrivere da sola la “legge attuativa” della sentenza sull’ergastolo. Ma mette sul tavolo una prospettiva forte. E anche chi si dice contrario alla decisione della Consulta, al punto da illudersi di poterla contrastare, con quella prospettiva dovrà fare i conti.