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Per il tuo bene ti mozzerò la testa Contro il giustizialismo morale è il titolo del nuovo libro del sociologo dei fenomeni politici Luigi Manconi e della studiosa di filosofia e letteratura Federica Graziani, edito da Einaudi.
È la rappresentazione di un Paese in cui l'emotività e la paura hanno il sopravvento sull'analisi dei fatti, l'angoscia collettiva reclama pene sempre più severe nonostante i crimini siano in calo, e dove processi pubblici e gogne mediatiche hanno perfettamente preso il posto delle tricoteuses settecentesche. Con questa intervista doppia vi diamo un assaggio del libro che termina con un test per i lettori: 11 casi esemplari per capire se siamo giustizialisti o garantisti.
Scrivete che oggi «lo scontro tra il populismo penale e una concezione garantista del diritto e della pena è in pieno svolgimento. E l'esito è del tutt'altro che scontato». Sarò pessimista ma a me sembra che almeno a livello di dibattito pubblico stiamo in minoranza.
Secondo lei come si delineerà questa battaglia in un futuro prossimo?
Luigi Manconi ( LM) - Sappiamo che è una battaglia cruciale e destinata a durare a lungo e a condizionare non i prossimi mesi, bensì i prossimi decenni. Se la consideriamo dentro questa lunga prospettiva, innanzitutto dobbiamo osservare che la situazione è molto migliorata rispetto a trent’anni fa: oggi la minoranza seriamente garantista è assai più ampia di quanto lo fosse all’epoca. Si può immaginare, di conseguenza, che crescerà e si allargherà e che le prossime controversie potrebbero avere anche risultati positivi e comunque favorire un cambiamento nei rapporti di forza. Non tutto è perduto.
Nel libro condividete anche una serie di dati importanti per smontare, ad esempio, la narrazione distorta che soprattutto in passato ha fatto Matteo Salvini del fenomeno migratorio.
Perché l'evidenza dei dati non ha alcuna efficacia nella formazione dell'opinione pubblica?
Federica Graziani ( FG) - I dati sono univocamente a favore delle nostre tesi e non solo per quanto riguarda l’immigrazione, che non costituisce l’invasione di cui blaterano i sovranisti. I dati smontano anche, e impietosamente, il paradigma della sicurezza.
Nei primi anni 90 si commettevano ogni giorno più di cinque omicidi volontari, nel 2019 gli omicidi volontari sono stati assai meno di uno al giorno. Ma perché questi dati risultano inefficaci al fine di contenere l’ansia collettiva e ridimensionare l’allarme per la sicurezza? La ragione potrebbe consistere nel fatto che la società italiana, e non solo quella, oggi è immersa in una condizione di insicurezza assai grave, profonda e diffusa. Ed è un’insicurezza materiale, concreta e dovuta alla crisi economico- sociale, che inquieta rispetto al futuro proprio e dei propri cari e provoca un generale smarrimento. È da questo stato che discende la paura rispetto alla minaccia della criminalità e che si tende a identificare, sempre e comunque, l’autore del reato nello sconosciuto, nell’ignoto, nello straniero.
Personalmente su questo giornale ho seguito molto il caso di Marco Vannini di cui scrivete per evidenziare le criticità e le conseguenze di quel giustizialismo televisivo come una sorta di “populismo sputtanante” È solo uno dei tanti casi di quella che chiamate “glamourizzazione” dei crimini prendendo in prestito John Pratt. E mi ha fatto molto sorridere la caricatura che avete fatto di Giulio Golia delle Iene, «proiezione grottesca della maschera di Antonio Di Pietro». Come possiamo invertire la rotta? È il Tribunale del Popolo che chiede questo spettacolo o sono gli editori, i mass media che lo alimentano? Ci vorrebbe un intervento dell'Ordine dei giornalisti?
LM - Pensiamo che qualsiasi intervento “esterno”, come quello dell’Ordine dei giornalisti ma anche qualunque codice di autoregolamentazione - e già ci sono, non avrebbe alcuna efficacia. Il corto circuito tra opinione pubblica e informazione brucia ormai da moltissimi anni e non è reversibile. D’altra parte, l’ennesima e moralistica lamentazione contro i mass media ci sembra vana, anche per una ragione troppo spesso sottovalutata. Pure nel caso in questione, l’eterna domanda se sia nato prima l’uovo o la gallina ci sembra futile.
Siamo in presenza, appunto, di un circuito chiuso dove quello che lei chiama il Tribunale del Popolo alimenta il sistema dell’informazione, e quest’ultimo incentiva gli umori e i rancori del Tribunale del Popolo.
L’uno giustifica l’altro. Il primo asseconda e accende, eccita e rinfocola il secondo, e ne viene, a sua volta, stimolato e blandito. Senza sottovalutare nemmeno per un attimo le responsabilità dei media, non si deve dimenticare che una domanda di giustizia sommaria e di rivalsa sociale cova nel profondo dell’animo umano. E si alimenta di relazioni private e scambi domestici, di frustrazioni personali e di sentimenti familiari persino prima di entrare in rapporto con il sistema dell’informazione.
Mi ha molto colpita l'analisi del termine “giustizialista” nell'accezione tedesca: «qualcosa di simile alla nevrosi tale da trasformare l'amore per la giustizia in ingiustizia». Ormai difendere la tutela delle garanzie individuali è diventato difficilissimo, soprattutto quando si parla di carcere. Come sanare questa situazione?
FG - Rispetto al carcere, siamo immersi in una fitta nebbia di equivoci. Equivoci che sono diventati prima luogo comune, poi emozione dominante - sono diverse le balle che reclamano attenzione pubblica - e infine si sono consolidati come modello di interpretazione egemonico. Il più diffuso è forse quello che riconosce l’esistenza nel nostro Paese di una sostanziale impunità dei criminali: sono pochi i delinquenti che vengono scoperti e inquisiti, ancora meno quelli che sono condannati e, per quei rarissimi che in carcere ci finiscono davvero, ci sono mille trucchi e mille inganni tutti strapaesani per uscirne e compiere nuovi reati. E c’è una lunga serie di efferate vicende di cronaca che sta lì a testimoniarlo. Ecco la distorsione. Non solo in Italia le pene detentive sono più lunghe rispetto alla media europea, si rimane insomma in carcere di più che negli altri Paesi, ma le misure grazie a cui le persone recluse, a vario titolo, escono di cella finiscono con una revoca perché si commette un nuovo reato nello 0,63 per cento dei casi. Esiste quindi più del 99 per cento di vicende in cui ciò non accade, ma chi mai ha visto un servizio televisivo o un articolo di prima pagina su questo?
Nell'analizzare il Movimento 5 Stelle dite tre cose a parer mio significative. Sono segnati da una matrice antiscientifica, non inseguono l'onestà quanto piuttosto la punizione della disonestà, sono connotati da un profondo nichilismo: “Per essere, l'altro deve redimersi”, come ha reclamato Di Maio nei confronti del Pd prima dell'accordo per il governo ‘ giallo- rosso’. Molti sostengono, anche all'interno del Pd stesso, che ad esempio sulla questione immigrazione il Pd si sia snaturato.
Ma non solo. Lei come giudica questa alleanza e fin quando durerà?
LM - Si può dire che il Partito Democratico e i 5 Stelle siano costretti all'alleanza e, probabilmente, a una coalizione di lungo periodo. Nello spazio politico italiano, la recente polarizzazione impone un'intesa non solo occasionale tra i due partiti ( diciamo due partiti perché 5 Stelle adotta, pressoché da sempre, la forma partito secondo tutti i crismi della politologia). D'altra parte, è inevitabile che l'alleanza finisca con lo ' snaturare' entrambi: e come questo vada a vantaggio o a svantaggio dell'uno o dell'altro dipende e dipenderà dai rapporti di forza. Dopo un primo anno in cui ha prevalso la povera cultura politica dei 5 Stelle, con il voto del 20 settembre le cose sono andate modificandosi e la riforma dei decreti sicurezza ne è stato il primo e concreto risultato. Ma siamo soltanto all'inizio.
Quello che è certo è che le distanze, per così dire ideologiche, tra i due partiti sono davvero ampie e solo un radicale processo di rinnovamento culturale e politico potrà portare a un programma che non sia semplicemente una sommatoria di obiettivi disparati e di omissioni sui punti controversi, ma una vera prospettiva comune. Il mio scetticismo sull'esito di questa prospettiva nasce esattamente da quell'analisi profondamente critica, che lei riporta, sui 5 Stelle come soggetto anti- politico, giustizialista e nichilista, che tanti danni ha fatto alla mentalità collettiva del nostro paese.
Ultima questione: Marco Travaglio, desiderato da Beppe Grillo come Ministro della Giustizia, è alla guida del partito giustizialista. A contrapporsi alla sua linea - scrivete - Il Dubbio, Il Foglio, Il manifesto, il Riformista.
Come mai la scelta di dedicargli un'analisi così approfondita?
FG - Abbiamo scelto Marco Travaglio come figura paradigmatica della mentalità giustizialista innanzitutto perché gli è capitato di essere tra i front- man più aggressivi, sgraziati e onnipresenti di tutte le battaglie più furiose in campo giudiziario. E poi perché incarna in modo puntuale quella sorta di ideologia per cui la società è dominata dal male e dalla corruzione. Non si può dunque che guardare dall’alto ai fatti del mondo, da un presidio di virtù e di intransigenza che perde il contatto con la realtà e si ritrova a descriverla in tinte sempre forti e ben marcate. Ricordate il titolo del Fatto sull’” Italia a delinquere” o il nomignolo inventato per il sindaco di Bergamo, la città più colpita dalla pandemia: Giorgio Covid? Ecco, se l’intera rappresentazione sociale, i suoi attori, le reti di relazioni e le forme di comunicazione sono sempre immerse in iperboli, se le sole virtù apprezzate si basano sulla forza e sulla repressione del crimine, se i fatti sono interrogati solo perché svelino contraddizioni e raggiri, che tipo di giustizia ne viene fuori?