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Due lauree e un Master in carcere, ma per i giudici è ancora pericoloso
Due morti nelle carceri nel giro di poco tempo: uno di “morte naturale” e l’altro, invece, si è tolto la vita impiccandosi. Entrambi le morti sono accomunate da un denominatore comune: l’incompatibilità con il carcere per evidenti motivi di salute, una fisica e l’altra psichica.
Il 2 ottobre Carlo Romano di soli 27 anni, si impicca nella sua cella del carcere romano di Rebibbia. Lo è venuto a sapere Riccardo Arena, conduttore di Radio Carcere, la rubrica radiofonica di Radio Radicale. Una vicenda, tragica, che è stata appresa grazie a una lettera scritta da un altro detenuto. Dal contenuto della lettera sembrerebbe che Carlo Romano avesse dei gravi problemi mentali, tanto che fino al giorno prima era guardato a vista. Poi, il giorno precedente al suicidio, la sorveglianza a vista gli sarebbe stata revocata e lui si è impiccato. A confermare il tragico gesto è la garante locale del comune di Roma Gabriella Stramaccioni. «Era in carcere da 6 mesi – scrive in una nota pubblica la Garante dei detenuti - ed aveva problemi psichiatrici. È stato sottoposto a vigilanza a vista perché aveva già tentato il suicidio e negli ultimi giorni era passato a regime di vigilanza generale». La garante Stramaccioni sottolinea che si tratta dell'ennesimo caso di una persona «che forse poteva essere curata all esterno». E conclude con un’amara riflessione: «Il carcere si dimostra sempre di più il luogo utilizzato per risolvere i problemi che all'esterno non trovano soluzione».
Questo è il 44esimo suicidio che si consuma dietro le sbarre dall’inizio del 2020 ed è il terzo avvenuto nel carcere di Rebibbia.
L’altro caso, emblematico, riguarda un detenuto che era malato da tempo e gli mancava un anno per uscire dal carcere. Due sono state le istanze di scarcerazione per gravi motivi di salute, ma tutte rimaste senza risposta. Il fine settimana scorso però è morto. Parliamo di Mariano Di Rocco, ' il tedesco' ( era nato a Berlino), 56 anni di Sulmona, ritrovato senza vita nella sua cella del carcere di Castrogno, a Teramo. L’infarto è l'ipotesi più accreditata del decesso, ma come da prassi il sostituto procuratore di turno, Enrica Medori, ha disposto l'autopsia che, molto probabilmente, sarà eseguita nella giornata di domani.
Secondo i legali Stefano Michelangelo e Paolo Vecchioli lui in carcere non ci doveva stare proprio. Per due volte, a luglio e a agosto, avevano per questo inoltrato richiesta di sospensione della pena ai tribunali di Sorveglianza di Pescara e L'Aquila, perché il suo quadro clinico era incompatibile con il regime carcerario. Mariano Di Rocco era stato condannato a due anni e undici mesi. Un cumulo di pena per furti, lesioni e piccolo spaccio. Era riuscito ad ottenere l’affidamento in prova, ma a giugno scorso il magistrato lo ha fatto ritornare in carcere dopo che non era rientrato nel suo domicilio come doveva: quella sera Di Rocco era stato all'Aquila e aveva perso il treno di ritorno, oltre al telefono per comunicare il suo problema. Un po' su di giri, era stato ritrovato che camminava per strada tra Popoli e Bussi, quindi arrestato e spedito dietro le sbarre. Di Rocco, tra i tanti problemi di salute, aveva anche una demenza alcolica riconosciuta da un perito. Secondo l'avvocato Stefano Michelangelo, era evidente che le sue condizioni di salute non fossero compatibili con il carcere. «Soprattutto era diabetico a uno stadio avanzatissimo – aggiunge l’altro avvocato, PaoloVecchioli - gli avevano dato un sostegno, ma era palese che non potesse stare in carcere». Nessuno però ha risposto alle istanze di scarcerazione che gli avvocati hanno presentato. Passato il dolore e il cordoglio, gli avvocati valuteranno con la famiglia di verificare le eventuali responsabilità di questa morte.
Queste tragedie avvengono nel momento in cui nel Parlamento si accentua il discorso carcerocentrico, sia in maggioranza che in opposizione. Un po’ dovuto dagli pseudo scandali “scarcerazione”, un po’ anche dalla retorica della “certezza della pena” scambiata con la certezza del carcere senza se e senza ma. La pena è certa, l’articolo 27 della Costituzione (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”) un po’ meno.