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Giovedì è morto nel carcere di Parma ed era tra i gravemente malati che sono stati rimandati in carcere dopo l’onda emozionale contro le “scarcerazioni”. Si tratta del 72enne pluriergastolano siciliano Carmelo Terranova, il quale a fine aprile ha usufruito della detenzione domiciliare a causa delle sue patologie ritenute inizialmente incompatibili con il carcere. Il suo legale, Antonio Meduri, aveva presentato istanza di scarcerazione per motivi di salute al Tribunale di sorveglianza di Bari. Ed il magistrato, accertato lo stato di salute precario del detenuto, già vittima di un infarto, anche per l'emergenza Covid 19, aveva disposto la scarcerazione. D’altronde il suo legale, producendo una corposa documentazione medica, ha motivato la sua richiesta con le gravi condizioni di salute del detenuto, afflitto da scompensi polmonari al punto che era costretto a respirare con l’aiuto della bombola dell’ossigeno 24 ore su 24.
Ma il resto della storia la conosciamo. Scoppia il caso “scarcerazioni”, arriva l’indignazione popolare e il ministro della giustizia partorisce subito ben due decreti per rendere più difficile la concessione della detenzione domiciliare ai detenuti per reati di mafia e terrorismo. Indignazioni che però si sono rinnovate giovedì scorso con alcuni articoli di Repubblica.
Solo che mentre sono riscoppiate le polemiche – si è distinta la sola voce autorevole del Garante Mauro Palma che ha spiegato l’importanza del diritto alla salute -, Il Dubbio ha potuto scoprire che nello stesso identico giorno muore uno di quei reclusi fatti ritornare in carcere perché ritenuti – dopo una stringente rivalutazione – compatibili con il regime penitenziario.
Come detto, Carmelo Terranova è stato fatto rientrare in carcere. Inizialmente l’hanno tradotto presso la casa Circondariale siciliana “Cavadonna”, in quanto, attraverso la rivalutazione obbligatoria, hanno attestato la compatibilità delle sue condizioni di salute col regime carcerario. In realtà, tempo poco più di un mese, lo hanno tradotto nel carcere di Parma e, esattamente il 14 agosto, è stato assegnato al centro clinico del carcere ( ora denominato con l’acronimo Sai). Struttura interna al penitenziario dove, come più volte ha denunciato il garante locale Roberto Cavalieri, ha solo 29 posti e perennemente tutti occupati: parliamo del punto di riferimento delle carceri di mezza Italia. Detenuti con trapianti, immunodepressi, diabetici scompensati, carcinomi, lesioni ossee. Un vero e proprio lazzaretto interno al penitenziario dove le cure sono sempre più difficili. Non a caso, subito dopo hanno ricoverato il detenuto in ospedale, nel reparto detentivo, dove alla fine è morto.
Terranova, come tutti gli altri detenuti finiti al centro del ciclone, non era un “boss”, ma uno degli appartenenti di spicco del clan Aparo. Era stato condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Siracusa sia per l’omicidio del francofontese Salvatore Pernagallo, avvenuto il 7 aprile 1992, sia per l’omicidio dell’ex autista del sindaco di Canicattini Bagni, Salvatore Navarra, avvenuto sempre nel 1992 nell’ambito della guerra di mafia tra i clan Aparo- Nardo- Trigila e il gruppo Urso- Bottaro, sia per la strage di San Marco, verificatasi il 3 settembre 1992. Ma la pena, per qualsiasi criminale, deve essere umana, e nei casi dove c’è una evidente incompatibilità carceraria con lo stato di salute, si dispongono misure alternative.
La lotta alla mafia, oggi, pare che si sia ridotta alla caccia ai vecchi “boss” malati che sono ristretti nei penitenziari. Se vengono “scarcerati” per motivi di salute ci si indigna, si fanno inchieste TV e fanno dimettere i vertici del Dap.
Se invece muoiono come nel caso di Terranova, silenzio tombale. Nessuna inchiesta TV e nessuno chiede se ci sia stata una qualche responsabilità da parte dei vertici. La sacrosanta lotta alla mafia pare che si sia trasformata in una crociata contro i principi costituzionali.