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La riforma garantisce: nel nuovo Consiglio superiore della Magistratura ci sarà più spazio per le donne. Ma la disciplina che introduce la parità di genere tra i togati resisterà alla prova elettorale?
Per Carla Marina Lendaro, presidente dell’Associazione Donne Magistrate Italiane, quella prevista con il ddl Bonafede è niente più che una «quota di chance». «E’ stato affermato un principio importante, quello della parità di genere, che è un principio di democrazia -, spiega Lendaro. In questo senso, il fatto che sia contenuto in una norma di legge, è una grossa conquista per tutte le donne. Ma le modifiche introdotte sono inadeguate e insufficienti». La debolezza della norma è presto detta. Approvato lo scorso venerdì dal governo, il disegno di legge che comincerà l’iter parlamentare dopo la sospensione dei lavori, introduce alcune modifiche sostanziali nell’elezione dei consiglieri togati che compongono una parte del Csm: il numero di magistrati scelti da altri magistrati passa a 20, tutti eletti in 19 collegi uninominali dislocati sul territorio nazionale attraverso un sistema maggioritario a doppio turno. Ma ecco l’altra novità: ogni collegio deve indicare almeno dieci candidati, di cui cinque per ciascun genere. La parità è garantita anche nelle preferenze: al primo turno, ogni magistrato elettore può esprimerne fino a quattro, alternando candidati di genere diverso. Passa il primo turno chi abbia ottenuto almeno il 65% dei voti di preferenza. Se non si raggiunge la maggioranza, si passa al ballottaggio: in corsa restano i quattro candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti, applicando al secondo, al terzo e al quarto posto sulla scheda un «coefficiente di riduzione pari, rispettivamente, a 0,90, 0,80 e 0,70». Insomma, il peso di ogni candidato sulla scheda si alleggerisce dopo il primo posto.
«La previsione della parità di “chance” assicurata per le candidature aggiunge la Presidente dell’Associazione magistrate - e l’alternanza per genere delle quattro preferenze, che è possibile esprimere al “primo turno”, così come la seconda preferenza di genere non obbligatoria nell’eventuale “secondo turno”, non solo costituiscono meccanismi di non facile applicazione ma, soprattutto, non garantiscono l’elezione di candidate, che ben possono restare soccombenti per ragioni diverse che operano sul piano socio- culturale e dell’organizzazione sociale, inoltre sarà possibile introdurre candidature di facciata a fronte di nomi noti e roboanti del genere opposto, ai più noti per il clamore delle loro inchieste rimbalzate sulla stampa». Dunque, lo strumento che dovrebbe aiutare a superare il problema della «sotto- rappresentanza», fortemente voluto dal Pd, rischia di vanificarsi alla prova della realtà.
Se l’Associazione Donne Magistrate è certa che «nelle audizioni parlamentari verranno fuori anche da parte delle costituzionaliste, delle parlamentari, e dell’avvocatura femminile, suggerimenti per introdurre correttivi sul sistema elettorale», c’è chi storce il naso sulla necessità di introdurre “quote rosa”. Il pm Nino di Matteo le considera «un’offesa al valore oggettivo delle donne magistrato. Alcune ( 6 sui 16 togati) già meritoriamente nel Csm. Tanto più ora che finalmente le donne iniziano a ricoprire importanti incarichi apicali». E’ il caso di due donne magistrato che hanno scalato la carriera nelle istituzioni segnando primati storici: Marta Cartabia, presidente della Corte Costituzionale, e Margherita Cassano, nominata di recente Presidente aggiunto della Cassazione. Un risultato, comunque, che non basta a soddisfare la domanda di rappresentanza per chi, come Lendaro, in replica a Di Matteo precisa: «La vera umiliazione non sta nella necessità di usufruire delle quote, ma nei numeri: ad oggi, le magistrate rappresentano il il 53,8% del totale, ma nella storia del Csm il 95% di consiglieri eletti sono uomini, a fronte solo del 5% delle consigliere: appena 28 in tutto».