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Decreto “Dignità”, decreto “Genova”, decreto “Rilancio”, decreto “Semplificazioni”. Sono solo alcuni dei provvedimenti che i governi guidati da Giuseppe Conte hanno approvato con la formula del “salvo intese”. Una formula che, secondo Francesco Clementi, costituzionalista e docente di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia, “deresponsabilizza il Consiglio dei ministri”.
Professor Clementi, la maggioranza ha approvato un altro decreto- legge “salvo intese”. In che modo questa procedura impatta sul dettato costituzionale?
Premetto che ci troviamo di fronte a una situazione molto difficile, e che chi governa oggi ha la mia solidarietà perché tra pandemia, anti- europeismo e vincoli di maggioranza, dove ti giri – come si dice – “son cipolle”. La scelta della formula “salvo intese tecniche” solleva tuttavia molti dubbi di legittimità costituzionale, perché da un lato l’esecutivo sembra voler approvare soltanto la “copertina” del testo che verrà poi emanato dal presidente della Repubblica, lasciando ai tecnici la responsabilità delle decisioni sui singoli provvedimenti; dall’altro, questo passaggio ulteriore determina un inevitabile allungamento dei tempi per l’emanazione del decreto. In questo modo rischiano di cadere quei presupposti di “straordinaria necessità e urgenza” che secondo l’articolo 77 della Costituzione sono la condizione necessaria per ricorrere al decreto- legge. Il vizio di fondo è che si scorpora temporalmente il momento decisionale dal contenuto normativo della decisione. È la finzione di una politica che predica ma non pratica, e che affida ai tecnici la soluzione solo apparentemente tecnica di questioni politiche molto rilevanti.
Quanto il “salvo intese” è legato alle difficoltà di tenere insieme una coalizione o quanto, invece, è una stortura ormai assodata?
La procedura esiste da tempo ma negli ultimi dieci anni è molto aumentata fino a essere applicata in maniera assidua dai governi Conte. Vi si ricorre quando non si riesce ad attuare fino in fondo l’indirizzo politico sul quale si basa il governo. Il risultato è che il Consiglio dei ministri approva per lo più generici principi o obiettivi poco definiti, che poi saranno riempiti da altri. Il difetto grave è che si affida all’apparato burocratico amministrativo del Paese, seppure non di rado di qualità, una responsabilità politica che non gli appartiene. Da un lato c’è un eccesso di discrezionalità amministrativa, che può addirittura implicare la necessità di reperire risorse per coprire spese non previste, dall’altro c’è una perdita di credibilità da parte della politica, che abiura al suo ruolo, soprattutto in questa fase storica.
Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale, ha definito «grave» la procedura che implica decisioni prese non più in Consiglio dei ministri ma nei partiti. È d’accordo?
Concordo con il professor Cassese sul fatto che il “salvo intese” stia diventando un modo che svilisce il ruolo del Consiglio dei ministri e dello stesso presidente del Consiglio. Tuttavia, sottolineo che il problema non è tanto togliere ai ministri il potere decisionale per affidarlo ai capi partito, quanto quello di metterlo direttamente nelle mani dell’alta burocrazia. Credo che per la maggior parte dei decreti approvati “salvo intese” il tema di fondo sia che la politica non vuole assumersi le proprie responsabilità, ma così facendo sega il ramo su cui siede, corrodendo la sua legittimazione e cancellando qualsiasi forma di responsabilità pubblica, e dunque di rispetto nei suoi confronti da parte dei cittadini.
A proposito di cittadini, il “salvo intese” tende a rimandare le decisioni. Ma in un momento difficile come quello attuale l’idea del rinvio non allontana ancora di più gli elettori dalle istituzioni?
Tutti gli strumenti che vengono posti in essere dalla politica per evitare di assumere la responsabilità delle decisioni riducono, sviliscono, mortificano la forza delle istituzioni. La politica è responsabilità, ma se utilizza sotterfugi, escamotages, trucchetti per aggirare il fatto di dover assumere delle decisioni di fronte ai cittadini, non si vuole bene e giustamente i cittadini s’interrogano. E si allontanano.
È dunque esistito un tempo in cui la politica “si voleva bene”?
Quando metteva al centro il governare e non soltanto la comunicazione del governo, la politica aveva ancora una sua forza. Per esempio, avevano una grande importanza le riunioni preparatorie del Consiglio dei ministri. Oggi si ha l’impressione che l’obiettivo sia l’opposto: che basti aver definito i principi tra i vari uffici legislativi, e che il resto si farà poi. Eppure passare dalle slides ad un articolato normativo non è così semplice. Non a caso, in genere, si fa il contrario.
Sembra far riferimento all’epoca del bipolarismo, quando il sistema elettorale era prevalentemente maggioritario...
Il sistema maggioritario vive di coerenza e si alimenta di responsabilità, facilmente inchiodando ciascuno alle promesse che ha fatto. Conta la volontà gli elettori prima che quella dei partiti. Il sistema proporzionale invece vive di incoerenza e di trasformismo, facendo contare i partiti prima che la volontà degli elettori. Questo perché il proporzionale è portato naturalmente a nascondere chi prende le decisioni, facendo sì che siano tutti colpevoli e innocenti al tempo stesso. E così saltano le barriere ideologiche, il confine tra maggioranza e opposizione diventa sempre più labile e la politica tende, senza rischi, a “lavarsene le mani”, come dimostra il “salvo intese”. Senza pagarne il costo dell’incoerenza.
Crede quindi che l’epoca della deresponsabilità della politica sia una delle conseguenze del sistema elettorale proporzionale?
Sì, e se posso le spiego perché. La scelta di una legge elettorale, intesa come formula elettorale, coinvolge almeno due concetti: il primo riguarda la trasformazione dei voti in seggi; il secondo serve invece ad individuare i rapporti di forza dei partiti tra di loro e dunque ci indica quali sono le scelte di alleanze conseguenti. Questo secondo concetto è quello fondamentale. Il proporzionale incentiva libere alleanze, è una sorta di grande valzer dove tutti possono ballare con tutti, senza imbarazzi; il maggioritario, al contrario, è un modo di intendere la logica politica che divide il campo in schieramenti, difficilmente scomponibili. Nell’epoca dell’irresponsabilità il proporzionale è il massimo strumento che può consentire di vivere questa dinamica di libera incoerenza verso gli elettori, senza paura di fare governi anche con i propri opposti. Perché contano le volontà dei partiti, non gli indirizzi politici degli elettori.