PHOTO
Un gruppo di avvocati di Fori diversi invia una lettera al governo. E chiede perché il reddito sia rimasto a 600 euro, mentre per altri autonomi sale a 1000
Nel meeting virtuale organizzato sabato scorso dal Pd milanese, Andrea Orlando ha dedicato un passaggio al rischio che «il populismo» fagociti due categorie. Una è quella delle «piccole e piccolissime imprese». L’altra è «il mondo delle professioni, che sarà profondamente colpito dalla crisi». Forse il vicesegretario dem ha antenne sensibili anche grazie alla pregressa esperienza da guardasigilli, che lo ha messo in contatto in particolare con la avvocatura. Fatto sta che l’esecutivo sembra sottovalutare ancora il disagio dei professionisti. Pare dimostrarlo la scelta di distinguere l’importo del “bonus” previsto, nel Dl Rilancio, per i mesi di aprile e maggio: per le partite Iva iscritte alla gestione separata dell’Inps sarà di 1.000 euro, per le categorie con una propria Cassa previdenziale, a cominciare dagli avvocati, si resta fermi a quota 600. Ne è nata la mobilitazione dell’Adepp - l’associazione di cui fa parte anche Cassa forense - che con il proprio presidente Alberto Oliveti contesta la «discriminazione». E l’insofferenza verso il “trattamento differenziato” attraversa l’intero mondo dell’avvocatura. A testimoniarlo in modo esemplare può essere citata la lettera aperta inviata due giorni fa da un gruppo di avvocati al premier Giuseppe Conte e ai ministri Roberto Gualtieri (Mef), Nunzia Catalfo (Lavoro) e Alfonso Bonafede (Giustizia), in cui si chiede che la «somma di 600 euro confermata con il “Dl Rilancio”, venga portata a 1.000 per tutti coloro a cui è stato riconosciuto il beneficio nel mese di marzo». L’iniziativa, promossa tra gli altri dagli avvocati Alessandra Zorzi di Padova e Angelo Ruberto di Foggia, prova a decostruire il mito degli avvocati immuni alla crisi post-covid: «Facile per i più dire che “gli studi sono aperti”: aperti per fare cosa? Se non c’è lavoro, l’Avvocato già in difficoltà, che in questi mesi di giustizia bloccata ha dovuto comunque pagare tasse, bollette, affitto, senza entrata alcuna (se non il “bonus” di marzo), cosa può fare?». La lettera ricorda la banale circostanza per cui «tutti i termini processuali sono stati rimandati, col susseguirsi di decreti, fino al giorno 11 maggio»: è quindi irragionevole pensare che in pieno lockdown gli avvocati abbiano potuto, per esempio, incassare parcelle. Gli autori della missiva ricordano un altro dettaglio: nel frattempo «i dipendenti pubblici sono rimasti a casa completamente stipendiati e tutelati». Il che non può essere certo una colpa. Ma la contestazione è sempre più ricorrente nei “cahiers de doleance” dell’avvocatura. Ora, nella lettera a Conte e ai ministri, il gruppo di avvocati nota come la sospensione dei termini abbia «comportato un differimento delle udienze per la maggior parte dei casi a fine anno o all’anno prossimo. In questi mesi, molti di noi non hanno ricevuto una sentenza, uno scioglimento di riserva, ma soltanto rinvii». Appunto. E visto il sostanziale congelamento dell’attività giudiziaria, si chiedono gli autori della missiva, «è difficile capire che noi tutti, dopo anni e anni di studio e gavetta, costretti a sostenere costi fissi molto alti, ci troviamo in evidente difficoltà?». La lettera, già “condivisa” sui social da migliaia di colleghi, contesta «evidenti, se non macroscopici problemi di costituzionalità» nella diversa misura del bonus. E, a riprova di quante difficoltà debbano fronteggiare gli avvocati, rammenta il numero di richieste inviate, ed evase da Cassa forense, per marzo: «Circa 140mila, due terzi degli avvocati».