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Simone Cristicchi sarà in scena fino a domenica al Teatro Vittoria di Roma con il suo Esodo, uno spettacolo commovente che racconta le tribolazioni degli italiani spinti a lasciare le loro terre d’origine in Venezia Giulia, Istria, Dalmazia e oggetto di torture da parte del regime comunista di Tito. Lo sguardo di Simone Cristicchi segue il dolore di questi esuli silenziosi, miti, la cui memoria è spesso messa da parte, offesa, se non addirittura calunniata. L’artista, con le idee rese ben chiare dalle sue ricerche, senza alcun cedimento a ideologie di qualsivoglia colore, dà voce alle piccole storie di donne, di uomini, di bambini, di terre di confine, “terre fragili”, contese, scenario di sofferenza.
Solo sul palco, con l’ausilio della parola, delle immagini, delle sue canzoni intense e di quelle di Sergio Endrigo, Cristicchi evoca e restituisce istantanee di vita, con sobrietà e amore, senza retoriche, e offre un quadro chiaro di quel tragico momento passato alla storia come esodo giuliano- dalmata. Lo spettacolo, al cui testo ha collaborato Jan Bernas, trova forte ispirazione dal Magazzino n. 18 nel Porto Vecchio di Trieste, luogo in cui molti italiani — e furono circa 300 mila a prendere parte all’esodo — lasciarono sedie, armadi, materassi, letti, stoviglie, fotografie, giocattoli, diari che si erano portati dietro dalle loro case dopo il Trattato di Parigi del 1947, sperando di trovare spazi per una nuova fase della loro vita.
Esodo nasce da un percorso di alcuni anni. Come mai un romano è arrivato a parlare della storia degli italiani d’Istria?
Tra il 2012 e il 2013 stavo facendo una ricerca sulle memorie della Seconda Guerra Mondiale. A Trieste ho saputo dell’esistenza del magazzino 18, nel Porto Vecchio, ho voluto visitarlo, sono rimasto molto colpito, e ho voluto approfondire questa storia. L’ho fatto per curiosità personale, per colmare una lacuna e anche per una forma di restituzione. Non ho nessun legame familiare con il mondo istriano.
Però sulla sua strada c’è stato Sergio Endrigo, uno degli italiani d’Istria che hanno potuto realizzare un sogno nonostante le difficoltà. Cosa la unisce a lui come artista e come uomo?
Fin da piccolo ero abituato ad ascoltare le canzoni di Sergio Endrigo con il giradischi di mia madre, e anche quelle di Gino Paoli, Edoardo Vianello, Luigi Tenco. Poi ho avuto l’opportunità, la grande opportunità di fare un duetto con lui, che mi ha regalato un brano bellissimo, Questo è amore, presente nel mio album di esordio, Fabbricante di canzoni. Tanti anni dopo ho realizzato una serie di concerti dedicati a lui con l’orchestra sinfonica, il più eclatante è stato quello a Piazza Unità d’Italia a Trieste.
Ha avuto difficoltà nelle ricerche per il suo spettacolo?
No, anzi, gli storici mi hanno supportato. Ho chiesto consiglio a persone che ne sapevano più di me, soprattutto per avere una patente di credibilità una volta salito sul palco. È chiaro che lo spettacolo non può essere una lezione di storia vera e propria, però con l’aiuto di alcuni esperti sono stato più tranquillo.
Quando ha raccontato questa storia ha avuto contestazioni… Accettai l’idea di realizzare questo spettacolo, incoraggiato dal figlio di un profugo istriano secondo cui, venendo da fuori, avrei potuto raccontare questa storia non intrisa di ideologia e di politica. Lascio ad altri, infatti, questo tipo di scontro ideologico. Quello che faccio è evocare una pagina di storia e far sì che sia uno strumento per comprendere il pregiudizio, lo sradicamento di un’intera popolazione, e anche per parlare metaforicamente dei grandi esodi che stanno avvenendo oggi nel mondo. Con Jan Bernas abbiamo cercato di volare alto, su temi molto importanti a nostro avviso, evitando gli scontri che non hanno niente a che vedere con la storia che racconto.
Uno degli strumenti che lei utilizza nel racconto è la canzone. Come interviene?
È stato Antonio Calenda, il regista di Magazzino 18, che mi ha spinto a scrivere dei brani, a trasformare quello che inizialmente doveva essere soltanto un monologo, in una sorta di musical. È stata sua l’idea, devo dire geniale, di utilizzare la forma canzone per riassumere in quattro minuti un’emozione.
Che trasformazione c’è stata in Esodo rispetto al precedente spettacolo Magazzino 18 a cui ha fatto riferimento?
Il testo è più o meno rimasto identico, abbiamo soltanto svuotato. Siamo andati a togliere quello che era l’impianto scenografico, che prima era molto imponente, a favore di un’evocazione della parola. Rimane al centro il racconto, che diventa come una lezione di storia fatta a teatro con gli strumenti che mi sono congeniali. Non è una prosecuzione di Magazzino 18, è un altro impianto drammaturgico, probabilmente più scarno, ma comunque efficace.
Come reagisce il pubblico?
In tutta l’Italia alla stessa maniera: c’è una grande commozione, a volte anche un senso di colpa per non aver conosciuto prima questa storia e un sentimento di gratitudine per questo racconto.
Per lei è importante dare voce ai vinti? Si considera un artista civile?
Io sono un rigattiere, un cercatore di tesori nascosti. Quest’attitudine l’avevo fin da bambino, passavo interi pomeriggi a cercare dentro i garage oppure nei mercatini dell’usato. La stessa cosa faccio a teatro: l’attitudine è quella del ricercatore. Mi innamoro di una storia e cerco di approfondirla e restituirla, come una sorta di restauratore, a chi può apprezzarla. Il teatro è diventato per me un’isola di grande libertà, dove posso sperimentare.
C’è un sentimento, una caratteristica comune di questi italiani d’Istria che l’ha colpita?
La malinconia. Quando parlano della loro terra, della loro vita precedente, lo fanno con un senso di nostalgia per un qualcosa che non potrà esistere più. Mi colpisce sempre emotivamente questo attaccamento alla terra natia, questo patriottismo. Ecco non bisogna mai scambiare il patriottismo con il nazionalismo: il patriottismo ha a che vedere con il cuore, con il sentimento, mentre il nazionalismo è pericoloso, è stato il male del Novecento. Loro invece dimostrano un grandissimo amore per i colori della bandiera, per la propria appartenenza a un popolo, cosa oggi svanita completamente.
Il registro della sobrietà e il raccontare storie di persone, sono state queste le chiavi che le hanno permesso di volare alto?
Le piccole storie diventano tessere di un mosaico di una storia più grande, è come se fossero tante istantanee, tante fotografie, che poi alla fine rendono completo questo album di ricordi. È chiaro che bisogna contestualizzare storicamente, perché sono passati settant’anni, quindi è cambiato tutto. Parto sempre dalle piccole storie, perché sono come una lente d’ingrandimento, aiutano a mettere a fuoco meglio le cose.
Molte storie saranno rimaste fuori, ce n’è una che rimpiange particolarmente?
In realtà no, a un certo punto ho sentito che la storia poteva funzionare così. Però ho tolto una parte presente in Magazzino 18, parlava di Goli otok, l’Isola Calva, un lager del comunismo jugoslavo. Questa è una storia che meriterebbe uno spettacolo intero e racconta di quest’unico lager presente in Europa fino al boom economico, un luogo dove venivano imprigionati i comunisti dissidenti. È una storia interessante perché ci restituisce la realtà di chi si opponeva al regime e descrive in toni molto drammatici il trattamento che gli veniva riservato. Per tanti anni le persone che sono vissute a Goli otok non ne hanno voluto parlare.