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C’ è sempre qualcuno che si offre a raccontare “l’ultimo Craxi”, specie nelle ricorrenze che riguardano la sua tormentata vicenda finale della politica e della vita: dalle monetine lanciategli addosso a Roma alla morte che dopo soli sette anni avrebbe chiuso la sua vicenda umana in terra straniera ma amica, molto più amica della Patria che egli scelse di scrutare attraverso il mare dal suo rifugio tunisino da esule, come si considerava, o da latitante, come lo liquidavano sprezzantemente gli avversari, pur conoscendone l’indirizzo e potendolo incontrare. Tentò di farlo anche una commissione parlamentare d’inchiesta su stragi, terrorismo e delitto Moro, trattenuta all’ultimo momento da un veto dell’allora inquilino del Quirinale proprio per evitare l’estrema e più evidente smentita di quella latitanza così comoda nelle polemiche contro il leader socialista.
Questa volta, nella ricorrenza del ventesimo anniversario della sua morte, si è tentato di raccontare “l’ultimo Craxi” anche con un film che si sta rivelando di grande successo un po’ per l’interesse che ancora suscita la figura dell’unico presidente socialista del Consiglio nella storia d’Italia e un po’ per la straordinaria bravura dell’attore che lo ha interpretato. Ma il vero “ultimo Craxi”, credete a me che l’ho ben conosciuto e frequentato prima e dopo il suo ritiro ad Hammamet, è quello raccontato in poco più di 120 pagine ben scritte e documentate, ancora fresche di stampa, che si leggono d’un fiato. E che ti fanno venire spesso la pelle d’oca per quanto riescano ad essere toccanti.
E’ l’omonimo libro di Andrea Spiri, pubblicato da Baldini e Castoldi, in cui il Craxi degli ultimi, sette anni drammatici della sua vita, dei quali sei trascorsi in Tunisia, è raccontato con le sue stesse parole, legittimamente virgolettate, che l’autore da storico di professione com’è ha saputo leggere e cogliere consultando le tante carte scritte di suo pugno o dettate al collaboratore di turno da Bettino - permettetemi di chiamarlo affettuosamente per nome, come facevo quando era vivo- negli interminabili giorni della sua solitudine, della sua struggente nostalgia dell’Italia, del ricordo dei torti subiti e degli errori compiuti.
Fra i quali un peso decisivo ha avuto anche la scelta di amici sbagliati, o di amici veri scambiati per avversari, come una volta gli rimproverai personalmente prendendo le difese di Ugo Intini, rappresentatogli da Roma al telefono da qualche sprovveduto come uno che trescava per tradire - all’incirca- la sua storia politica cincischiando con Massimo D’Alema.
Ce n’é traccia anche nel libro di Spiri, che pure con la serietà dello storico ha riferito anche dell’interesse, se non della speranza, avvertito da Craxi in persona quando proprio D’Alema approdò pur avventurosamente a Palazzo Chigi, con l’aiuto di Francesco Cossiga. E’ il D’Alema che poi, tragicamente, non ebbe il coraggio di scontrarsi pubblicamente con la Procura di Milano, oppostasi a un gesto umanitario verso un malato ormai terminale. Egli per giunta mandò un telegramma quasi anonimo di auguri, tramite l’ambasciata di Roma a Tunisi, al suo vecchio avversario politico uscito vivo, sì, ma ancora per poco da un difficile, disperato intervento chirurgico. Che avrebbe potuto avere migliore esito se compiuto in Italia.
Quello che colpisce del racconto di Spiri è la serenità con la quale Craxi seppe e volle arrivare alla morte: serenità, più ancora di rassegnazione, nella consapevolezza di una vita vissuta per il suo Paese e per la politica, pur ricambiato così male, anzi così atrocemente: un avverbio, quest’ultimo, che solo con una dose industriale di malafede si può rifiutare di adoperare per giudicare i metodi usati sul piano giudiziario e mediatico contro Craxi per farne il capro espiatorio di quel fenomeno generale e conosciutissimo del finanziamento illegale dei partiti, delle loro correnti, dei gruppi e dei singoli leader e leaderini.
Già dieci anni fa, proprio nella ricorrenza di un altro anniversario della morte di Craxi, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano volle scrivere una lettera alla vedova, e ai figli, non solo e non tanto per esprimere, come ha opportunamente ricordato Spiri all’inizio del suo lavoro, il proprio “turbamento” ricordando la morte solitaria di un uomo da lui ben conosciuto in vita, e per apprezzarne il contributo dato al governo del Paese e alla sinistra “italiana ed europea”. Mi permetto a questo punto di aggiungere alle citazioni di Spiri altre parole testuali di Napolitano, scritte nella doppia veste di capo dello Stato e di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura a proposto delle indagini e dei processi che avevano travolto Craxi sulla strada della cosiddetta Tangentopoli: «E’ un fatto – scrisse Napolitano- che il peso della responsabilità per i fenomeni degenerativi ammessi e denunciati in termini generali e politici dal leader socialista era caduto con durezza senza uguali sulla sua persona».
In quella «durezza senza uguali» è scolpito come in un’epigrafe un severo giudizio pure sui magistrati, anche se costoro, i più diretti interessati, almeno quelli ancora in vita allora, fecero finita di non sentire, non leggere e non capire.
Una durezza quando è «senza uguali» sconfina, signori miei, nella violazione del senso stesso della giustizia, che deve essere coniugata con l’equanimità.
Non c’è giurista, filosofo, sociologo, editorialista, politico e sofista che possa negare questa evidenza così icasticamente denunciata dieci anni da Napolitano nella sua postazione al Quirinale: più e meglio di quanto avrebbe potuto fare una commissione parlamentare d’inchiesta fra le tante inutilmente chieste, a cominciare dallo stesso Craxi, sul finanziamento dei partiti e sulle distorsioni che derivarono dall’applicazione o dalla evasione delle leggi che lo disciplinavano, peraltro tra amnistie di una tempestività o coincidenza a dir poco inquietante per gli sviluppi poi dati alle iniziative giudiziarie contro il leader socialista. Egli era, in realtà, solo o soprattutto colpevole di essere scomodo, più che “antipatico”, come ha appena scritto in un libro Claudio Martelli, a nemici e alleati di governo per la sua autonomia, dopo tanto tempo trascorso rovinosamente dal Psi al seguito sostanziale del Pci.