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È passato un altro 23 novembre. Una data drammatica per l'Irpinia, per il Sud e per l'Italia intera. Sono trascorsi 39 anni da quella tragedia che distrusse territori, comunità e sconvolse nell'intimo generazioni che in un attimo persero i loro affetti più cari. Quei novanta secondi, sì proprio novanta interminabili secondi, alle 19 e 34 di una tranquilla domenica, sono rimasti nella mente e nello spirito di tutti quelli che l'hanno vissuti. E poi i 2914 morti, gli 8.848 feriti, la disperazione di circa 280.000 sfollati e quel “Fate presto” del Mattino, strillato a nove colonne, immortalato per sempre da Andy Warhol , hanno segnato le vite di tutti noi.
Quel 23 novembre rappresentò per l'Italia anche la nascita della Protezione civile, un'intuizione di Giuseppe Zamberletti, uomo del Nord, che divenne per noi terremotati un riferimento e un amico al pari del presidente della Repubblica Sandro Pertini. L'Ir-pinia e le altre zone colpite conobbero la solidarietà di un'Italia pronta a rimboccarsi le maniche. La ricostruzione sarebbe potuta essere l'occasione per ripartire, per rilanciare economicamente questi territori, ma una politica miope, interessata ai profitti, la trasformò in un fallimento. Per ammissione dello stesso Zamberletti, che ho intervistato qualche anno fa, non fu la ricostruzione privata a fallire, ma l'idea di voler industrializzare territori che fino ad allora vivevano d'altro. E i nuclei industriali abbandonati dopo pochi anni ne sono la conferma.
A distanza di 39 anni la nostra Protezione civile è un modello apprezzato e copiato in tutto il mondo. Nell'emergenza siamo imbattibili, ma nella prevenzione continuiamo a essere una frana: purtroppo letteralmente. Dal Piemonte al Veneto, dalla Liguria alle Marche, al Lazio e giù fino alla Campania, alla Calabria e alla Sicilia. Non si salva nessuno, ma purtroppo queste tragedie sembrano non insegnare nulla. Dopo l'allarme della Protezione civile e la mobilitazione si spera che non accada nulla o che almeno non ci siano vittime. Poi parte il circo mediatico con il solito il cliché. Inviati che tra il fango e sotto la pioggia fanno il bilancio, intervistano sindaci che scaricano le responsabilità su chi li ha preceduti, anche se spesso amministrano da decenni, e cittadini disperati, ma a volte anche responsabili per aver costruito le loro case dove non avrebbero dovuto. Puntualmente spuntano geologi, urbanisti, ingegneri e architetti che analizzano le cause delle tragedie, evidenziando le criticità del nostro Paese e ripetono ossessivamente: c'è necessità di fare prevenzione. Ma passato il maltempo, fatta la conta dei danni gli esperti ritornano nel dimenticatoio e i politici, invece di programmare un piano nazionale di prevenzione, che costerebbe sicuramente meno in vite umane e risorse economiche, si affrettano ad annunciare: “chiederemo lo stato di emergenza”. Purtroppo quel 23 novembre 1980 e tutte le tragedie che si sono succedute in questi ultimi decenni hanno insegnato poco. È stato trasformato in una triste ricorrenza per alcuni e come esempio di spreco di fondi pubblici per altri. Avrebbe dovuto far capire a tutti che i danni provocati da alcuni fenomeni naturali possono essere prevenuti o ridotti grazie a una politica di prevenzione. Invece si attende, ci si affida alla buona sorte, si incrociano le dita e si spera che non succeda nulla. Altrimenti parte l'emergenza e in quella, almeno, siamo bravi.