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Un ragazzo gambiano, richiedente asilo, è affetto da un disturbo schizzo affettivo. A causa del suo disturbo si era reso protagonista di improvvisi atteggiamenti violenti, un uno dei quali aveva tentato – convinto di essere in comunicazione con Dio - di bruciare gli oggetti contenuti in una borsa presente in una stanza del centro di accoglienza. Dopo questo episodio la Prefettura gli ha revocato le misure di accoglienza, il quale nel frattempo è stato ricoverato. Il ragazzo ha avuto una vita difficile. Non ha mai conosciuto il padre, mentre la madre lo ha affidato a un’altra famiglia. Quest’ultima lo mandava a lavorare, da giovanissimo, per contribuire al loro mantenimento.
Quando “gli affari” non andavano bene e la famiglia non era soddisfatta del suo lavoro, veniva brutalmente picchiato. Un giorno la famiglia aveva dovuto trovare un altro appartamento dove stare, ma per il ragazzo non c’era posto e quindi dovette arrangiarsi da solo facendosi ospitare da un suo amico, ma dopo qualche giorno ha dovuto lasciare anche quel posto perché i genitori dell’amico non lo volevano più. Era andato a vivere alla casa di un signore, il quale però beveva molto, ma soprattutto la casa era senza bagno e non poteva lavarsi. Una vita difficile, che ha contribuito alla nascita della sua patologia mentale. Malattia che in Gambia, di fatto, impatta fortemente sulle concrete condizioni di vita, impedendone l’accesso ai servizi sanitari e assistenziali, al lavoro e l’esercizio dei diritti civili e politici.
Come detto, la prefettura gli ha revocato le misure di accoglienza, ma tramite il difensore ha fatto ricorso e ha vinto. Parliamo di un recentissimo provvedimento emesso dal Tribunale di Milano - Sezione Specializzata in materia di Immigrazione -, con il quale è stato riconosciuto lo status di rifugiato al giovane cittadino gambiano, affetto da una grave patologia mentale. Il motivo? In Gambia le persone con problemi mentali subiscono forti discriminazioni e non vengono, di fatto, tutelati.
Infatti, nella nota difensiva, la difesa sottolineava come il sistema gambiano fosse, in generale, carente sia sotto il profilo della presenza di strutture e personale, sia sotto il profilo della disponibilità di medicinali. Ma la parte interessata riguarda il settore psichiatrico che, nonostante gli inviti ricevuti dall’organizzazione mondiale della sanità e dalla comunità internazionale, il Gambia non ha ancora provveduto a modificare l Suspect Lunatic Act, una legge sulla salute mentale risalente al 1917 e dai contenuti fortemente discriminatori nei confronti dei malati mentali.
Secondo le fonti consultate dalla difesa, in Gambia i malati di mente superavano le 120 mila unità. Le ricerche effettuate dal difensore evidenziavano l’assenza di medici psichiatrici specializzati e l’assoluta carenza di strutture destinate o comunque idonee alla cura dei malati mentali. Secondo le fonti citate nel ricorso, l’unica struttura ospedaliera presente in Gambia contava su un’unica infermiera specializzata nel settore psichiatrico, e due infermieri con formazione generale.
A tale riquadro si aggiunge quella che è stata definita da una risposta dell’ambasciata italiana a Dakar, come una «grande percezione negativa della malattia». Questa è confermata dalle ulteriori fonti consultate: infatti in Gambia «si riscontra la tendenza a ritenere che le persone con malattie mentali siano meno umane di loro stesse, con ciò finendo per negare loro i diritti umani fondamentali. Ciò sembrerebbe essere ulteriormente esacerbato dalle credenze culturali e all’ignoranza che circonda la malattia che è sovente ricondotta alla stregoneria».
Il Tribunale ha rilevato come la Costituzione del Gambia, pur proibendo la discriminazione e/ o lo sfruttamento delle persone con disabilità, non faccia espressamente riferimento ai tipi di disabilità tutelati né alle tipologie di servizi cui hanno diritto di accedere, rimanendo, di fatto lettera morta. Tutto questo, rileva il Giudice, si traduce in gravi violazioni dei diritti umani, stigmatizzazione e limitazioni ampiamente discriminatorie nell’accesso ai servizi e nell’esercizio dei diritti civili e politici. Alla luce di queste considerazioni, il Tribunale di Milano ha ritenuto integrati i presupposti di cui all’art. 7 d. lgs. 251/ 2007 per il riconoscimento dello status di rifugiato: il ricorrente appartiene a un determinato gruppo sociale, perseguitato sia dalle autorità nazionali, che non provvedono a modificare le discriminatorie disposizioni in vigore nei confronti dei malati mentali, sia dalla società maggioritaria che si rende responsabile di gravissime violazioni anche a danno dell’integrità fisica dei malati.