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In dialetto pugliese, morto si dice “muerto”, un oggetto ingombrante invece si dice “muerso”. Il giorno in cui è stato intercettato erano le 8.30 del mattino, Angelo Massaro stava portando da un paese all’altro un mezzo meccanico attaccato a un carrello dietro la macchina e discuteva al telefono con la moglie. Lei era innervosita, perchè lo stava aspettando per portare il figlio all’asilo, lui le spiegava che sarebbe arrivato il prima possibile, ma che era rallentato da quel “muerso” che stava trasportando.
Per gli inquirenti che indagavano sulla scomparsa di un amico di famiglia di Massaro e avevano messo i telefoni sotto controllo, però, il carico trasportato era un cadavere. Ci incontriamo fuori dall’auditorium di Modena, dove Massaro è stato invitato a raccontare la sua storia nell’ambito del Festiva della giustizia penale, e pochi minuti prima di cominciare lui è un poco agitato: in sala ci sono ottocento posti e non ha mai parlato davanti a una platea così vasta.
Al centro c’è la sua storia: imputato e condannato ingiustamente per sequestro di persona, occultamento di cadavere e omicidio con l’aggravante della premeditazione. Tre gradi di giudizio, macinati alla velocità record di tre anni: «Sono stato condannato a 24 anni in primo grado, confermati in appello e Cassazione. Contro di me non c’erano nè il corpo del reato, nè l’arma del delitto, nemmeno il movente. Solo un’intercettazione trascritta male».
Un’intercettazione trascritta male e le parole di un pentito, nell’ultima fase del processo: «Ha riportato fatti che non poteva conoscere se non avendo letto gli atti processuali e ha detto che “pensava” che il colpevole fossi io. Poi, questo collaboratore è stato smentito in altri processi e dichiarato inattendibile. Io, però, ero già in carcere».
Dal 15 maggio 1996, data del suo arresto, Angelo Massaro è stato detenuto in sette carceri e le elenca velocemente: «Taranto, Lecce, Foggia. Poi Rossano Calabro, Carinola, Melfi e infine Catanzaro», dove si è svolto anche il processo di revisione.
Sette carceri in ventun anni, senza mai un permesso premio. Massaro, dopo l’elenco delle città, spiega con semplicità la ragione di tanto peregrinare: «Non accettavo la pena, quindi venivo considerato un detenuto polemico e contestatario». Per questo, non ha mai avuto un permesso premio: «In alcuni istituti mi hanno chiesto di fare la cosiddetta “revisione critica di passato deviante”, in pratica di ammettere la mia responsabilità, ancorandola alla concessione di permessi premiali».
Massaro, però, non ha mai cambiato versione dei fatti, anche a costo di non uscire mai di cella e di peregrinare per tutti gli istituti del sud Italia come detenuto problematico. In quei lunghi anni, è diventato un testimone delle condizioni delle carceri italiane: «Una volta ho sentito un ministro dire che il nostro ordinamento penitenziario è il migliore d’Europa, peccato che sia applicato per meno del 30%». In tre istituti l’acqua corrente nelle docce e nelle celle era solo fredda tutto l’anno, lo stato delle strutture «da terzo mondo».
La cosa peggiore, però, è stata il distacco dalla famiglia. L’ordinamento penitenziario prevede che questo non avvenga, ma Angelo racconta che il detenuto per prima cosa viene allontanato di fatto dai suoi affetti: «Per nove anni non ho mai visto la mia famiglia. Non potevano venirmi a trovare per problemi economici e l’unico contatto era un colloquio telefonico alla settimana, per 10 minuti. Immagini 10 minuti ogni sette giorni: 180 minuti per ogni figlio, 120 minuti con mia madre e 120 con mia moglie. Questo, secondo il ministero della Giustizia, significa mantenere gli affetti familiari» .
La vita in carcere è durissima: «Vivevo col tormento di essere innocente e di essere dove non dovevo. Più chiedevo il rispetto dei miei diritti anche carcerari, più ero considerato un detenuto problematico. Per questo venivo inserito tra gli “indesiderati” e spostato di carcere in carcere». Nel raccontarlo, Massaro sorride con amarezza: «Chi chiede diritti in carcere non piace, il detenuto modello è quello che mangia, dorme e non dà fastidio». Ma dentro ha mai trovato la solidarietà di qualcuno, il conforto di un’amicizia? «Umanità l’ho trovata in qualche agente della polizia penitenziaria. Ho raccontato loro la mia storia e non volevano crederci».
Tra gli altri detenuti, invece, nulla. «In carcere impari che non puoi confidarti con nessuno. In 21 anni, non ho mai detto ad anima viva la ragione della mia condanna». La ragione sta in una delle prime regole che si imparano: «In carcere, per avere un beneficio, sono tutti pronti a vendersi anche la madre. Dal primo momento ho iniziato a lavorare per la revisione del processo e si immagini: parlavo con qualcuno e poi questo andava a raccontare che “Massaro mi ha detto che...”. Poi valla a smontare un’altra accusa. No, dovevo tenermi tutto dentro».
Per arrivare alla revisione, sono serviti vent’anni: in carcere, Massaro ha iniziato a studiare giurisprudenza e si è scritto da solo l’istanza di revisione. L’ha mandata a molti avvocati, fino a quando non ne ha trovato uno che gli ha creduto e ha accettato di combattere con lui. Reperire la documentazione, però, è stato difficile e l’avvocato ha dovuto svolgere indagini difensive per ascoltare tutti i testimoni in grado di smontare l’accusa. «In pratica, abbiamo fatto la ricostruzione che avrebbero dovuto fare, nell’immediatezza dei fatti, gli inquirenti».
In un certo senso, lo studio lo ha salvato: «Mi ha salvato la testa, insieme alla meditazione e allo yoga. Ma più importante di tutti è stata la mia famiglia». Che però, senza i permessi premio, riusciva a vedere e sentire pochissimo. Massaro interrompe il racconto e ci pensa: «Un permesso l’ho ricevuto, nell’ultimo anno di carcere. Fu il magistrato di Catanzaro a dirmi di presentare la domanda anche se io mi rifiutavo di fare ammissione di colpa. Ricevetti il permesso dopo sette mesi ed era già in corso il processo di revisione, poi seppi che il magistrato me lo aveva concesso dopo aver letto la mia sentenza di condanna, che lui stesso definì “illogica”».
Ora, Angelo Massaro è un uomo libero: è tornato a casa sua, in provincia di Taranto, e si sta faticosamente ricostruendo una vita, «perchè il passato in carcere genera sempre pregiudizi, anche se ho sconta- to una condanna da innocente». Contemporaneamente, sta portando avanti il giudizio per il risarcimento per ingiusta detenzione, ma si tratta di un percorso lungo e Angelo apre le braccia, «nulla potrà comunque ripagarmi di quello che ho perso».
Quando è entrato in carcere, i suoi figli avevano due anni e pochi giorni, ora sono due ragazzi quasi adulti e quando parla di loro si commuove, come è successo sul palco del Festival: «La madre li ha cresciuti bene, con senso dello Stato, nonostante quello che è successo a me». Un senso dello stato che lo stesso Massaro ha conservato, anche se la sua è una di quelle storie che legittimano a mettere in discussione il meccanismo giudiziario italiano: «Il senso della giustizia me lo ha fatto ritrovare il procuratore generale che ha chiesto la mia assoluzione in sede di revisione. Gli ho stretto la mano e lui mi ha detto che stava solo facendo il suo dovere».
Nessun odio, nessuna vendetta nei confronti di chi ha deciso di rubargli ventun anni di vita: «Sbagliare è umano e quel che è successo a me non può cambiare», liquida in poche parole il discorso ma, quando gli si chiede cosa vorrebbe sentirsi dire da quegli stessi giudici, risponde «una conferenza stampa, in cui dicono che si impegneranno a fare indagini con criterio, in futuro. Si ricordino che dietro un detenuto innocente ci sono mogli, figli e genitori».
Quando è finalmente uscito dal carcere di Catanzaro due anni fa, la prima cosa che ha fatto è stato andare al mare e buttarsi tra le onde, anche se era dicembre.
«Così ho ricominciato a vivere» .