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Piano con le visioni in tinta orbace e con gli appelli agli Arditi del Popolo per una rapida ricostituzione. Matteo Salvini, ringhioso per professione, non è affatto il primo a calarsi nei panni solitamente redditizi dell’uomo forte nella storia repubblicana. Ci hanno provato in molti, qualcuno ci è anche riuscito.
Il modello resta Mario Scelba, da un po’ di anni molto in voga nella sinistra antifa’ per via della legge che porta il suo nome e punisce l’apologia di fascismo. Capricci della storia, e della mancata conoscenza della stessa. Mai e poi mai il ministro degli Interni più duro nella repressione anti- operaia che ci sia mai stato avrebbe immaginato di vedersi esaltato da quelli ai quali abitualmente faceva sparare addosso senza pensarci su due volte. Per Scelba il pericolo era quello rosso, non quello nero. La legge che viene citata a sproposito ogni volta che si chiacchiera d’antifascismo era calibrata per non coinvolgere il Msi Segretario di don Sturzo, amico di De Gasperi che lo nominò ministro degli Interni nel 1947, Scelba restò in carica fino al 1955, con un breve intermezzo tra il luglio 1953 e il febbraio 1954. Anche quando si ritrovò per pochi mesi presidente del Consiglio mantenne l’interim del Viminale. Contrariamente alla vulgata, però, non fu lui a creare la famigerata Celere: ci aveva già pensato il predecessore, un socialista, Romita. Scelba si occupò però di trasformarli in reparti molto più aggressivi, con tanto di mitragliatrici e mortai in dotazione, che potevano muoversi solo su mandato del ministero.
Per Scelba la guerra civile era davvero un’eventualità in agguato dietro l’angolo. Pertanto appena insediato al Viminale mise alla porta tutti gli agenti sospetti di simpatie sinistrorse e aumentò gli effettivi di 30mila unità: la polizia disponeva così di 70mila agenti affiancati da 75mila Carabinieri, non alle dipendenze del Viminale, e 45mila finanzieri. L’imponente armata si rivelò utile anche quando lo spettro della guerra civile fu fugato, dopo le elezioni del 1948. Pur se certamente disarmati, i rossi erano sempre rossi e Scelba non faceva mistero di considerarli l’avamposto di una potenza straniera. Nelle riunioni del governo era puntualmente il primo a spingere per adottare le misure discriminatorie nei confronti dei comunisti, cacciandoli ove possibile dalla Pubblica amministrazione. Il problema è che i comunisti manifestavano spesso in piazza. L’idolo dei centri sociali antifascisti del XXI secolo sapeva come trattare i sovversivi: pugno di ferro e niente guanto di velluto. Con lui al Viminale i morti durante manifestazioni furono un centinaio e passa, i feriti si contarono a migliaia. Non ci andò leggero neppure con gli arresti: 148.269 in sette anni. Non furono tutti condannati, ma il numero di quelli che in galera ci finirono non solo qualche notte è di tutto rispetto: 61.243 condannati per un totale di 20.426 anni di carcere. Al confronto quel Salvini resterà comunque e per sempre un pivello.
Anche il successore dell’impareggiabile Scelba se la tirava da uomo forte. Ma se il ministro di ferro era un combattente che credeva in quel che faceva, il nuovo inquilino del Viminale, Fernando Tambroni, era un furbo avventuriero pronto a civettare a turno con la sinistra o con la destra pur di arrivare al potere. A differenza di democristiani tosti e anticomunisti che erano stati però convinti oppositori del regime, come il ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani o lo stesso Scelba, Tambroni era stato fascista e doveva l’improvvisa ascesa in una Dc che non lo stimava affatto all’amicizia con il presidente della Repubblica Gronchi. Anche Tambroni, nei suoi cinque anni al Viminale, si atteggiò a ' uomo forte'. Più che i manganelli però adoperava i dossier e le intercettazioni. Fu il primo a capire e sfruttare quell’impareggiabile strumento di potere: «Io a quello gli leggo la vita» era una delle sue frasi preferite e Sergio Lepri, non ancora direttore dell’Ansa, ricevette una telefonata dal ministro in persona che lo rimproverava per cose dette in privato la sera prima. Quando Scelba fu tentato dall’idea di una scissione nella Dc, il ministro lo stroncò con la minaccia di divulgare una relazione extraconiugale. Certo dopo essersi peritato di far sparire il dossier che denunciava la sua relazione con l’attrice Sylva Koscina. Però, quando dopo aver flirtato a lungo con la sinistra ( anche su mandato di Gronchi), Tambroni finì al guidare lui governo grazie ai voti del Msi e le piazze si ribellarono, l’ex ministro mise da parte i dossier e nel luglio ‘ 60 ordinò di aprire il fuoco come Scelba e più di Scelba.
Ci volle parecchio perché dalle file della Dc emergesse un altro ' uomo forte'. Toccò a Francesco Cossiga, ministro degli Interni nel 1976. A Cossiga il ruolo piaceva e un po’ anche lo adoperava a scopo di deterrenza. Quando, nel marzo 1977, Bologna esplose dopo l’uccisione da parte della polizia dello studente Francesco Lo Russo, ' Kossiga' mandò le autoblindo a occupare la città. Una mossa in schietto stile Salvini, ma decisa nella consapevolezza che a pesare sarebbe stato il segnale simbolico non le mitragliette. Allo stesso tempo, quando il 12 marzo una manifestazione nazionale a Roma finì con una serie di attacchi contro la polizia a colpi di pistola, il ministro con la K tenne la testa a posto e contenne la reazione degli agenti, evitando probabilmente una mezza strage.
Cossiga non era Scelba e neppure Tambroni. Le cose gli sfuggirono però di mano quando, dopo aver vietato ogni manifestazione a Roma in seguito all’uccisione di un agente, il partito radicale decise di festeggiare l’anniversario del referendum sul divorzio violando il divieto. Il ministro s’impuntò. La polizia si scatenò probabilmente oltre le previsioni dello stesso ministro: Giorgiana Masi fu uccisa il 12 maggio. Ma Cossiga, in quegli anni, lavorò sempre a strettissimo contatto di gomito con un altro ' uomo forte', Ugo Pecchioli, anche lui a modo suo ' ministro degli Interni', anche se del Pci e non del governo. Quasi sì però. La stretta emergenziale di quegli anni porta la sua firma a pari merito con quella di Kossiga.
Per quanto strano sembri nella seconda Repubblica, quella con leghisti ed ex fascisti spesso al governo, gli ' uomini forti' hanno sempre latitato. Come premier Berlusconi cercava casomai di andare quanto più possibile d’accordo con tutti, anche per questioni di carattere: niente a che spartire con Bettino Craxi, per i nemici ' Bokassa', epitome della grinta a palazzo Chigi. Ma i suoi ministri degli Interni non erano da meno: anche Beppe Pisanu veniva della Dc ma tra lui e Scelba era più o meno il solo elemento somigliante. Qualcuno ci ha provato, Maroni, a modo suo, e lo stesso Fini, ma per fortuna non erano tagliati.
A raccogliere la fiamma è stato Marco Minniti, tanto rigido nel fronteggiare l’eterna emergenza sbarchi da meritarsi i complimenti dello stesso Salvini: «Ha fatto un discreto lavoro. Non lo cambieremo». Del resto, appena un anno fa, a minacciare la chiusura dei porti per sbarrare la strada ai profughi era stato proprio lui. Un precurosore...