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Infirmitas sexus. Il principio giuridico dell’impedimento dovuto al sesso è stato forse il più duro da rimuovere nell’ordinamento italiano, che le battaglie per l’uguaglianza hanno dovuto raschiare via pezzo per pezzo dalla legislazione e dai codici civile e penale. Un capestro che ha reso cieche e sorde le donne, nel quale far rientrare ogni tipo di pregiudizio: l’incapacità di autonomia, l’ignoranza, la natura domestica, l’inferiorità fisica, addensati in una locuzione tranciante utilizzata come inappellabile argomento giuridico.
Proprio con la ragione dell’infirmitas sexus, la Cassazione di Torino confermò il divieto di iscrizione all’Ordine degli Avvocati di Lidia Poët, nell’aprile 1884. Con la stessa motivazione, nel 1906 la Corte di Appello di Firenze escluse l’iscrizione femminile nelle liste elettorali: «la donna ob infirmitatem sexus non ha né può avere la robustezza di carattere, quella energia fisica e mentale necessaria per disimpegnare come l’uomo le pubbliche cariche». Nella legislazione, invece, il principio di tradizione romanistica conservò solida rappresentazione nell’istituto dell’autorizzazione maritale, sancita dall’articolo 134 del codice di derivazione napoleonica del 1865: «La moglie non può donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza l’autorizzazione del marito».
A sgretolare il baluardo dell’infirmitas sexus fu, per prima, la legge 17 luglio 1919, n. 1176. Una legge di otto articoli, rubricata “Norme circa la capacità giuridica della donna” e firmata dall’allora Guardasigilli Ludovico Mortara ma passata alla storia come legge Sacchi ( dal nome di Ettore Sacchi, giurista e ministro della Giustizia del Regno d’Italia fino al gennaio 1919).
All’articolo 1, la norma abroga interamente l’istituto dell’autorizzazione maritale, riconoscendo dunque piena capacità giuridica alla donna nella disposizione dei propri beni. All’articolo 7 sancisce, invece, la svolta epocale nell’esercizio delle libere professioni: «Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espresse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento». E’ grazie a questa previsione esplicita che si aprono le porte alla legittima iscrizione agli albi forensi delle professioniste donne, fino a quel momento impedite dalla giurisprudenza costante ( in mancanza di una esclusione esplicita di legge) ad indossare la toga.
Nelle parole del legislatore, tanto chiare quanto necessarie nel determinare il futuro di una generazione di giuriste sino a quel momento ignorate dallo Stato, si sancisce definitivamente una presa d’atto del cambiamento dei tempi, riconosciuto anche nella relazione sul progetto di legge della Commissione del Senato. «Il disegno di legge si riferisce a questioni ripetutamente dette mature», esordì in Aula il senatore relatore Bensa. Mature anche perchè «se n’è impadronita l’opinione pubblica con un largo movimento nel senso delle riforme contemplate dal questo disegno di legge».
Se quasi pacifica è l’abrogazione dell’istituto di diritto civile «reclamata insistentemente sia da correnti femministe che da correnti giuridiche», il relatore si soffermò soprattutto sulla questione dell’apertura alla professione forense: l’articolo, infatti, infrange «espressamente e risolutamente una tradizione di molti secoli» e che trova la sua giustificazione emblematica nel fatto che il diritto debba rimettersi al passo coi tempi, visto che gli ordinamenti scolastici «aprirono alle donne il conseguimento di quei diplomi che sono l’immediato e principale presupposto dell’abilitazione alle cosiddette professioni liberali». Eppure, su un punto così delicato e osteggiato dalle parti più reazionarie della società e dell’accademia italiana, la commissione raggiunse l’unanimità, «unanimità sulla quale ci piace insistere, perchè riflette il punto veramente sociale e politico del progetto».
Così, nel 1919, un Parlamento di soli uomini e composto soprattutto di giuristi aprì le porte dei tribunali alle avvocate. Bisognerà aspettare invece il 1963 perchè cadano le esclusioni previste dalla seconda parte dell’articolo 7 della legge Sacchi e le donne possano partecipare al concorso in magistratura, vedendo riconosciuto, massimamente nelle aule di giustizia, il principio di uguaglianza e la definitiva infondatezza dell’umiliante “impedimento dovuto al sesso”.