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Molto si è scritto e si è detto, o si è più semplicemente insinuato, su cosa consistesse quello spiraglio avvertito da Aldo Moro negli ultimi giorni di vita, nel covo brigatista in cui era rinchiuso, scrivendo alla moglie per rivelarle che tutto si era improvvisamente chiuso. Come in effetti si chiuse perché il 9 maggio del 1978, di prima mattina, egli fu ucciso dai suoi aguzzini nel bagagliaio di un'auto poi parcheggiata in via Caetani, a poca distanza dalle sedi nazionali del Pci e della Dc, ma soprattutto della Dc. La cui direzione nazionale era stata convocata proprio per quella mattina per una discussione importante. Alla quale il presidente del Senato Amintore Fanfani si era impegnato con Bettino Craxi, in un incontro organizzato nell'abitazione di Ettore Bernabei, a pronunciare un discorso che fornisse una copertura politica all'allora capo dello Stato Giovanni Leone. Che era pronto a concedere la grazia a Paola Besuschio, compresa fra i tredici "prigionieri", cioè detenuti per reati di terrorismo, con cui le brigate rosse avevano chiesto di scambiare il loro ostaggio.Mi convinsi che fosse proprio la grazia alla Besuschio quello spiraglio avvertito da Moro quando nel 1998, intervistando per Il Foglio proprio Leone in occasione del ventesimo anniversario del sequestro dello statista democristiano, mi sentii raccontare la storia di quell'atto di clemenza e ne raccolsi gli atroci dubbi rimastigli nel cuore, oltre che nella mente, per la gestione di quel maledetto affare. Dubbi mai manifestati prima perché poche settimane dopo la morte di Moro il povero Leone fu costretto dai due maggiori partiti a dimettersi con ragioni o pretesti vari ch'egli avvertì, forse non a torto, come intimidazioni.Sarebbero arrivate solo molti anni dopo le scuse dei radicali per la campagna scandalistica contro Leone alimentata da un libro di Camilla Cederna, poi condannata in tribunale, e cavalcata dal pur garantista partito di Marco Pannella. Molti anni dopo sarebbe arrivata anche la riabilitazione di Leone, per fortuna quando lui era ancora vivo, da parte dei comunisti. Che nel 1978, convincendo anche la Dc, avevano reclamato la fine anticipata, sia pure di soli sei mesi, del mandato del presidente della Repubblica come "segnale" di svolta morale nel Paese dopo un referendum abrogativo del finanziamento pubblico in cui i partiti avevano rasentato la sconfitta cominciando a sentirsi poco popolari. Le umane resistenze di Leone a quella defenestrazione, comunicatagli dal comunista ed amico Gerardo Chiaromonte con "la morte nel cuore", erano state inutili. Si era addirittura arrivati al rifiuto dell'Ansa, su imput del governo, di pubblicare una circostanziata autodifesa del presidente dalle accuse infamanti che gli erano state rivolte in una campagna di stampa che non si era arrestata, forse non a caso, come vedremo, durante i 55 terribili giorni del sequestro di Moro.***L'ottimo Lanfranco Caminiti ha già ricordato, commentando le lettere scritte da Moro ai presidenti della Repubblica e delle Camere, passaggi importanti dell'affare Besuschio, che mi hanno fatto tornare alla mente quel giorno in cui, dietro appuntamento, andai a trovare Leone nella sua casa alle Rughe. Lo trovai alle prese con un grosso fascicolo, nel quale aveva messo le pagine del suo diario, o qualcosa di simile, riguardanti proprio i giorni del sequestro di Moro. Ci sentiva poco, il povero Leone, e la nostra conversazione fu aiutata più volte dalla moglie Vittoria, che alla fine dell'incontro, accompagnandomi all'uscita, mi chiese la disponibilità ad aiutare i figli a mettere in ordine le carte del marito. Io ebbi il torto, che non mi sono mai perdonato, di far cadere l'offerta. Quelle carte sono comunque finite e conservate, spero integre rispetto all'impressione che ne ebbi quel giorno, negli archivi del Senato.Comunque gran parte del racconto dell'affare Besuschio fattomi da Leone comparve nell'intervista al Foglio, della quale - una volta pubblicata - egli volle gentilmente ringraziarmi definendola "formidabile". E che risulta fra i documenti sui quali ha lavorato e lavora tuttora l'ultima commissione parlamentare d'inchiesta, in ordine di tempo, sulla vicenda Moro. Commissione presieduta dall'ex ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni. Se ne trova traccia anche nella relazione sul primo anno di lavoro dei commissari.Leone cominciò rivelandomi che già poche ore dopo il sequestro di Moro, viste le note di agenzia e i comunicati che anticipavano la cosiddetta linea della fermezza concordata fra la Dc e il Pci, e fatta propria dal governo, egli convocò al Quirinale il segretario democristiano Benigno Zaccagnini. Col quale non si parlava dal giorno della propria elezione a presidente della Repubblica, alla fine del 1971, quando lo stesso Zaccagnini, non ancora alla guida del partito, si era pubblicamente doluto del concorso determinante dei missini alla sua ascesa al Quirinale, credendo alla loro versione piuttosto che alle smentite opposte dal capo dello Stato in una lettera al direttore del quotidiano ufficiale dello scudo crociato.Leone disse francamente a Zaccagnini di non condividere la linea della fermezza, convinto che la difesa della vita di Moro dovesse prevalere su tutto. L'ospite ne prese atto ma non cambiò idea. Da allora curiosamente Leone si sentì isolato. Ogni tanto gli telefonavano il presidente del Consiglio Giulio Andreotti e il ministro dell'Interno Francesco Cossiga per assicurargli che si stesse facendo tutto il possibile per liberare Moro. I servizi segreti smisero di mandargli le segnalazioni quotidiane, e naturalmente riservatissime, inoltrate al governo.Dopo il comunicato col quale le brigate rosse avevano reclamato lo scambio di Moro con 13 detenuti per reati di terrorismo, Leone fu contattato dall'amico avvocato Giuliano Vassalli, socialista, e dal consigliere di Stato Giuseppe Manzari, amico e già capo di Gabinetto di Moro alla Presidenza del Consiglio dal 1963 al 1968. Con loro e con l'allora ministro della Giustizia Francesco Paolo Bonifacio, già giudice e presidente della Corte Costituzionale, Leone spulciò una per una le posizioni dei 13 detenuti indicati dalle brigate rosse. Le spulciò con la perizia di avvocato e di giurista, ai cui testi generazioni di studenti hanno attinto nei loro corsi di laurea.L'attenzione alla fine si fermò sulla Besuschio, condannata in via definitiva per reati di terrorismo ma non di sangue e ammalata. Era l'unica, secondo lui, nelle condizioni giuridiche e umane di essere graziata con un provvedimento utile anche a cercare di smuovere i terroristi dalla loro intransigenza con quell'elenco così lungo e provocatorio per lo scambio. E si decise di avviare le procedure.***Chiesi a quel punto a Leone - sapendo anche di una testimonianza resa da Bonifacio alla prima commissione parlamentare d'inchiesta sulla vicenda Moro in cui aveva escluso che fosse stato predisposto un provvedimento di grazia per la Besuschio - se davvero il ministro della Giustizia fosse d'accordo, vista la posizione di Andreotti e del governo contro ogni cedimento alla linea della fermezza. Lui mi zittì dicendomi, testualmente: "Bonifacio era stato un mio allievo. Mi era devoto. Faceva quello che io gli dicevo". Il tono fu così perentorio, accompagnato da gesti inconfondibili, che non osai ribattere. E gli lasciai continuare il racconto.La prima cosa da fare, secondo la disciplina allora esistente in materia di grazia, era rintracciare la Besuschio e farle chiedere l'atto di clemenza. Sembrerà curioso o impossibile, ma per un paio di giorni Leone non riuscì a sapere dove la detenuta fosse rinchiusa. Alla fine se ne conobbe la condizione di ricoverata in un ospedale, dove fu mandato un ufficiale in borghese dei Carabinieri per proporle di firmare la domanda di grazia. Ma, o perché convinta di suo o perché raggiunta precedentemente da ordini superiori dei suoi compagni di lotta, la donna rifiutò. Mi risulta da Internet che, nata a Verona 67 anni fa, la signora sia ancora viva. Basterebbe forse rintracciarla e cercare di farla parlare per saperne di più, e meglio.In mancanza di una domanda di grazia Bonifacio ritenne che non si potesse andare oltre. Ma Leone lo sorprese dicendo di essere pronto ad innovare procedura e prassi per concedere la grazia lo stesso, di sua iniziativa. Pertanto dispose di procedere chiedendo soltanto di avere un minimo di copertura politica.Il segretario socialista Bettino Craxi, contattato da Vassalli, garantì subito e volentieri la sua disponibilità, avendo pubblicamente contestato la linea della fermezza, almeno per come era stata gestita sino ad allora. E fu lo stesso Craxi, falliti gli altri tentativi riferiti da Caminiti ai lettori del Dubbio, a contattare l'allora presidente del Senato Fanfani per avere un aiuto, che gli fu promesso nell'incontro già ricordato nell'abitazione di Ettore Bernabei.Tutto era quindi pronto quel 9 maggio, giorno della riunione della direzione democristiana, per chiudere la vicenda: Leone pronto a firmare, Fanfani pronto a sostenerne l'iniziativa presa autonomamente. Ma i terroristi, con una "tempestività" che angosciò Leone fino alla morte, precedettero tutti ammazzando Moro. E risparmiandosi l'incomodo, diciamo così, di ridiscutere l'epilogo del sequestro di fronte al fatto nuovo che sarebbe stato il provvedimento di grazia alla loro compagna di lotta.Fu una tempestività casuale o di che altro tipo? E di che origine? Carceraria, politica, burocratica? Sono le domande che il povero Leone si è portato anche nella tomba e che lasciano insoluto forse il più decisivo dei tanti misteri del caso Moro.E' improbabile che gli autori superstiti del sequestro, di cui è stata lamentata più volte, e giustamente, nonostante i tanti libri, le tante deposizioni, le tante interviste rilasciate, una ostinata reticenza su tanti passaggi e aspetti della loro infausta avventura, troveranno la voglia e il modo di dare finalmente qualche credibile risposta.