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«Io non sono mai stato mafioso, non lo sono e mai lo sarò». Rocco Femia è libero da poco più di 24 ore e casa sua è un via vai di gente incredibile. L’uomo tenace che guidava il Comune di Marina di Gioiosa fino al 2011 è profondamente cambiato nel fisico e nel volto, scavato e provato da cinque anni di carcere e due condanne con un’accusa pesantissima: 416 bis, associazione a delinquere di stampo mafioso. Un sodale del clan Mazzaferro, dice la Dda di Reggio Calabria, uno che sapeva ed era consapevole del suo ruolo. Ma ora che la Corte d’Appello di Reggio Calabria lo ha rimesso in libertà, mentre si è ancora in attesa delle motivazioni della sua condanna in appello a 10 anni di carcere, può parlare e dire la sua. E ribadisce un concetto che, sin dal primo minuto, ha urlato a squarciagola, davanti al gip prima e in aula dopo: «io sono innocente».
L’ARRESTO
Il momento più brutto, racconta l’ex sindaco Femia, è stato quello dell’arresto, all’alba del 3 maggio 2011, quando scattò l’operazione “Circolo Formato”. Secondo la Dda, i Mazzaferro avevano puntato sulle elezioni del 2008 per recuperare terreno sui rivali, gli Aquino, cercando politici in grado di inserirli nei gangli dell’economia di Marina di Gioiosa Ionica. Rocco Femia, per l’accusa, era uno di quelli. Anzi, il numero uno tra i soggetti prescelti. «Quel momento mi ha traumatizzato, il mondo mi è crollato addosso. Non mi sarei mai aspettato di finire in carcere con questa pesante accusa», dice. Il primo pensiero alla famiglia, poi alla comunità, che al riveglio si è ritrovata senza sindaco, senza giunta, tutti col marchio della ‘ndrangheta stampato addosso. «Ho sofferto tantissimo. Insegno educazione fisica da 30 anni, ai miei ragazzi ho sempre parlato del rispetto delle regole – ha spiegato -. Vedere che tutto questo sarebbe andato perduto mi ha distrutto». Da quel giorno sono passati cinque anni prima di poter passare un’altra notte a casa con la propria famiglia. Cinque anni durante i quali non ha fatto altro che ripetere la sua versione dei fatti, supportato dai suoi avvocati Eugenio Minniti e Marco Tullio Martino. «Ribadisco quello che ho sempre detto sin dal mio primo giorno: non ho niente a che fare con la ‘ndrangheta, non ne ho adesso e non ne avrò nel futuro. Questa parola non è mai entrata in casa mia», sottolinea. E difende a spada tratta anche la sua amministrazione, fatta «di uomini liberi», di gente che «ha sempre agito nella massima legalità, trasparenza e democrazia. Tutto questo lo affermano i fatti, le prove, ma purtroppo, non so perché, c’è stato un accanimento violento nei nostri confronti. Su di noi non c’è niente». Assieme a lui sono finiti tre uomini della sua giunta: Rocco Agostino, Vincenzo Ieraci e Francesco Marrapodi, tutti condannati per due gradi di giudizio, l’ultimo assolto definitivamente dalla Cassazione.
I CINQUE ANNI IN CARCERE
La prima volta che Femia entra in cella è a reggio Calabria, «un cunicolo con 4 letti a castello, con cemento grezzo a terra, scarafaggi e topi che ci passavano sulla testa mentre dormivamo. Dopo pochi giorni è venuto a farci visita il ministro della Giustizia di allora e gli ho detto tutto. Così sono stato trasferito a Palermo». Lì l’ex sindaco, il cui Comune nel frattempo finisce in mano ad una commissione, rimane due anni. Un’altra realtà, un altro modo di vivere. «Ma anche lì ho cercato di migliorare le condizioni dei detenuti per via del sovraffollamento». E così viene trasferito ancora, questa volta a Vibo Valentia, dove rimane fino al giorno della sua scarcerazione. «Un posto decisamente migliore, anche se ora sovraffollato», afferma, raccontando di aver cercato di migliorare la situazione delle carceri in cui si è trovato, «come sono abituato a fare, da uomo libero».
LE SENTENZE DI CONDANNA
Nel frattempo passano gli anni e il processo va avanti. Femia incassa due condanne, tutte e due a 10 anni. Le motivazioni della sentenza di primo grado sono pesantissime: Femia, dice la Corte, è intraneo alla cosca ed è consapevole di ogni cosa. «Ho letto le motivazioni tantissime volte. Non riesco a capire perché quella mole di carte che abbiamo prodotto, le testimonianze, anche di uomini che rappresentavano la giustizia sul territorio, che hanno detto che non sono mai stato visto con persone sospette, non sono state tenute in considerazione. Rispetto quella sentenza ma mi si deve dare la possibilità di dire che non sono d’accordo – spiega ora -. Non meritavo di fare un giorno di carcere. Faccio politica dal 1988, la mia è sempre stata una condotta esemplare, onesta e trasparente, per il bene della mia comunità. Sono sempre stato eletto per l’impegno che ho messo per la mia comunità». E rigetta l’accusa di essere un mafioso, snocciolando gli atti della sua amministrazione. «Abbiamo sempre denunciato ogni rischio infiltrazione, demandato ogni appalto, anche sotto soglia, alla Suap. Abbiamo dato solo legnate a queste persone – aggiunge parlando dei clan -, li abbiamo esclusi quando hanno vinto gara per rete idrica, perché non erano a posto con i documenti, abbiamo ordinato la demolizione di alcune stalle abusive. Come si fa a dire che eravamo dei sodali? Abbiamo subito atti intimidatori e ancora non sappiamo chi è stato». Atti che, secondo la Dda, rientrano in quella lotta tra due clan – Aquino e Mazzaferro – che avevano puntato sulle elezioni del 2008 per spartirsi il territorio, vinte “dai Mazzaferro”, che avrebbero puntato sul cavallo vincente, Rocco Femia. «Ma noi quegli atti li abbiamo subiti un anno dopo le elezioni», puntualizza l’ex sindaco. Che non nega i contatti con Rocco Mazzaferro, ritenuto la mente di una campagna elettorale dove il clan avrebbe scelto tutto, dai candidati al simbolo della lista. «L’ho detto subito anche al gip, non l’ho mai negato: lo conosco da anni, è un mio parente, siamo vicini di casa. Abbiamo giocato per 10 anni nella stessa squadra, dove c’erano anche membri delle forze dell’ordine. Era un incensurato e non si è mai verificato un fatto di cronaca che lo vedesse interessato. Un ragazzo normalissimo», racconta.
LA SCARCERAZIONE
Giovedì 12 maggio, la Corte d’Appello di Reggio Calabria ne ha ordinato la scarcerazione, sulla scorta dell’annullamento senza rinvio pronunciato dalla Cassazione della condanna di Marrapodi, che per due gradi di giudizio in abbreviato era stato condannato con l’accusa di essere un mafioso. L’annullamento della condanna di Marrapodi, scrivono i giudici reggini, «esponente politico messosi a disposizione della cosca Mazzaferro in occasione della competizione elettorale del 2008, nominato assessore nella giunta presieduta dal Femia Rocco – soggetto con posizione sostanzialmente analoga a quella dell’istante», costiuirebbe «elemento sopravvenuto suscettibile di valutazione nel giudizio in ordine alla persistenza delle esigenze cautelari». Femia rivede così la luce, mentre attende di leggere i motivi per i quali è stato condannato, per la seconda volta, per 416 bis. «Ringrazio la Corte d’Appello per la straordinaria decisione che ha preso nei miei confronti, mi ha ridato la libertà. Io mi auguro che prima o poi venga compreso che la mia amministrazione ha sempre operato nella massima trasparenza e legalità, senza traccia di mafiosità. Sbagliare è umano». (Intervista rilasciata il 13 maggio 2016)